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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
25.10.2017 Anna Frank/commenti 2: E' ora dell'intransigenza
Analisi di Pierluigi Battista, Francesco Merlo, Matteo Pinci intervista il calciatore israeliano Tal Banin

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Pierluigi Battista - Francesco Merlo - Matteo Pinci
Titolo: «Contro l'antisemitismo è l'ora dell'intransigenza - Le gaffe non fanno più ridere il gelo della comunità ebraica per i fiori di Lotito in sinagoga - 'L’antisemitismo non è uno scherzo guai ad abbassare la guardia'»

Riprendiamo dal CORRIERE DELLA SERA di oggi, 25/10/2017, a pag. 28, con il titolo "Contro l'antisemitismo è l'ora dell'intransigenza", l'analisi di Pierluigi Battista; dalla REPUBBLICA, a pag. 3, con il titolo "Le gaffe non fanno più ridere il gelo della comunità ebraica per i fiori di Lotito in sinagoga", l'analisi di Francesco Merlo; a pag. 4, con il titolo 'L’antisemitismo non è uno scherzo guai ad abbassare la guardia', l'intervista di Matteo Pinci al calciatore israeliano Tal Banin.

Ecco gli articoli:

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CORRIERE DELLA SERA - Pierluigi Battista: "Contro l'antisemitismo è l'ora dell'intransigenza"

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Pierluigi Battista

Ora, però, questa orribile storia dell'immagine di Anna Frank sfregiata da un gruppo di cialtroni nella curva laziale non può e non deve diventare la fiera del bel gesto dettato dall'indignazione a comando. Dicono, animati dalle migliori intenzioni certamente: facciamoli sentire isolati, gridiamo con le nostre magliette, coni nostri simboli, con i nostri discorsi, con le nostre scritte, con le nostre corone di fiori, che l'antisemitismo di questi idioti non ha spazio negli stadi e nella società civile. Ma il cattivo gusto è in agguato ed è meglio dire, più prosaicamente e tuttavia più efficacemente: da oggi non la farete più franca, con voi la parola passa alla repressione intransigente senza troppi distinguo e giustificazionismi, vi abbiamo individuato, non metterete mai più piede in uno stadio, Daspo eterno, e galera se vengono riconosciuti i reati, e pugno di ferro, squalifiche spietate con le società di calcio come è avvenuto in Inghilterra stroncando gli hooligans, così imparano a non vigilare sui violenti, sui razzisti, su quelli che si portano la svastica appresso e inneggiano ai nazi e dicono schifezze su Anna Frank perché sanno che resteranno impuniti. Ecco: basta impunità. E il deterrente più efficace, l'arma dissuasiva più potente: non vi azzardate mai più, guardate come stiamo trattando con durezza quelli come voi. L'indifferenza, l'accondiscendenza, sono finite, come la nostra pazienza. Poi certo, è giusto anche esortare alla lettura del di Anna Frank.

Ma purtroppo i mascalzoni che ne hanno voluto imbrattare la memoria sanno benissimo chi è stata Anna Frank, e hanno voluto inscenare il loro orrendo spettacolino proprio perché lo sanno, proprio perché il loro messaggio apparisse più lugubre e minaccioso, perché sanno tutto il dolore che il nazismo ha inflitto agli ebrei, sanno cosa è accaduto a una ragazzina nascosta in una soffitta di Amsterdam durante la Shoah, e sanno che vorrebbero riservare ai nemici lo stesso trattamento.

In Cari fanatici, appena pubblicato da Feltrinelli, Amos Oz dice che i peggiori crimini politici non nascono dall'ignoranza, ma dal fanatismo. Sono fanatici i negazionisti che parlando della «menzogna di Auschwitz», vorrebbero in realtà esaltare lo sterminio e replicarne l'orrore. Anzi, il negazionismo nacque verso la fine degli anni Cinquanta proprio bersagliando la veridicità del Diario di Anna Frank che attraverso le atrocità vissute da una ragazzina ebrea aveva risvegliato finalmente la memoria dell'Olocausto dopo un lungo periodo di silenzio, in cui persino Se questo è un uomo di Primo Levi aveva incontrato difficoltà nella ricerca di un editore. Sapevano chi era stata Anna Frank, ma volevano deturparne la memoria facendo presa sulle zucche vuote dei loro seguaci. Come i teppisti dello stadio romano (alcuni minorenni, addirittura) che hanno agitato un simbolo dell'odio razziale e antiebraico per fare ancora più male, per sfidare il mondo, per apparire più cattivi. Bisogna che la società e lo Stato, a questo punto, siano «cattivi» con loro, applicando con loro la legge nel modo più severo, senza indulgenze. Ma noi abbiamo il tabù della repressione intransigente, ci sembra troppo brutale e cruda, poco «simbolica», poco comunitaria, mediaticamente emozionante. E allora ci inventiamo cerimonie sostitutive.

La corona di fiori portata dal presidente della Lazio in Sinagoga, la declamazione di brani del Diario di Anna Frank prima delle partite che rischia addirittura di essere un boomerang, e poi, colmo del cattivo gusto e della banalizzazione, le magliette da indossare con il volto di Anna Frank o le magliette con il simbolo della stella gialla, quella che gli ebrei dovevano indossare per volontà dei persecutori e che oggi davvero appare grottesco associare a una maglietta di calcio, anche sotto forma di impotente denuncia. Meno magliette, meno simboli e più polizia, più magistratura, più rifiuto di ogni indulgenza. Questa è la discontinuità che vorremmo dallo Stato e dalla società. Perché «mai più» sia un impegno serio, e non la solita formula vuota e retorica.

LA REPUBBLICA - Francesco Merlo: "Le gaffe non fanno più ridere il gelo della comunità ebraica per i fiori di Lotito in sinagoga"

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Francesco Merlo

A mezzogiorno Claudio Lotito, circondato dai soliti ceffi di romanacci crapuloni, arriva in sinagoga e dice: «Basta con questo antirazzismo e antisemitismo ». Ma la signora ebrea che mi sta accanto non riesce a riderne: «Il vero oltraggio per Anna Frank, anzi per Anna Franche come la chiama lui, è essere difesa da Lotito ». E subito il presidente della Lazio fornisce un altro esempio di questa sua lingua basica, associativa e fisiologica, la stessa degli ultrà che lo amano e tuttavia lo odiano. «Hai fratelli ebrei, da Claudio... » è la dedica scritta a penna, proprio con l’acca del verbo avere, sulla corona di fiori bianchi e azzurri che sono i colori della Lazio ma anche della bandiera israeliana. Ed è una di quelle coincidenze che la psicanalisi definisce sincroniche e Lotito “sinestetiche”. Davvero Lotito è la prova che non ha inventato nulla il Checco Zalone che dice «fotochoc», «faccio una comicità anglosassa» e «sarei un ipocrita se dico il viceversa». Ma l’entrata in scena di Anna Frank è illuminante. Improvvisamente ci conferma infatti, e per sempre, che abbiamo colpevolmente troppo riso di Lotito perché serviva al nostro giornalismo spettacolo, dal “Processo del lunedì” alla “Domenica Sportiva” a “Tiki Taka” sino alla prosa colta degli intellettuali raffinati che si compiacciono nell’esegesi del plebeismo, quasi fosse l’essenza popolare del calcio, un po’ come Machiavelli che amava giocare a carte nelle bettole.

Per anni ci siamo divertiti per i sei telefoni che a volte suonano tutti insieme nelle tasche dove Lotito tiene rotoloni di contanti. E, ancora, abbiamo riso del suo rapporto con Tavecchio che definì «l’ometto mio». Tutti abbiamo collezionato le sue frasi più strampalate da «le diastole non sono dialisi» a «prendere le vacche per le zinne e i tori per le palle». Ma Anna Franche cosa c’entra, com’è arrivata nel mondo di Lotito? «Come è diventato possibile che Anna Frank sia considerata un modo per offendere? », si è chiesto ieri Mario Calabresi. Mentre aspettiamo l’arrivo del presidente della Lazio in sinagoga giro la domanda ad Arturo Diaconale che di Lotito è il portavoce. Ha lavorato tanti anni al Giornale di Montanelli e fa parte, per conto del Centrodestra, del consiglio di amministrazione della Rai: «Ma dai, è ‘na commedia — mi dice — non è la prima volta che Anna Frank viene evocata dai tifosi ultrà. Anche i romanisti l’hanno usata contro i laziali». Denunziano il peccato di reciprocità anche a Radio Sei dove un certo Giulio però non sopporta «tutta sta retorica su Anna Frank, manco fosse ‘a principessa Diana. Scommetto che stasera ce fanno rivedè la Vita è bella». Pure i tifosi che a grappolo mi fanno cerchio a ridosso di un “covo” della Lazio al Flaminio mi dicono di sapere tutto di Anna Frank: «E mo stamo a vede se domani scrivi che semo coatti, gente che non ragiona». E poi: «Mortacci» esplode Claudio che fa il portiere, «ora te giro su WhatsApp le foto dei muri che a Roma so’ tutti romanisti». Ci sta scritto: «Anna Frank tifa Lazio». E ancora: «Laziale ebreo». Sotto, a inequivocabile suggello dell’antilazialità c’è pure: «Dieci, cento, mille Paparelli » ed è un riferimento a Vincenzo Paparelli, tifoso della Lazio ucciso allo stadio nel 1979 da un razzo romanista che gli si conficcò nell’occhio.

Ma la mia amica ebrea mi spiega che l’immondizia antisemita contro la Roma ha radici nella sua storia. Pubblicato da Giuntini è appena arrivato in libreria «Presidenti » di Adam Smulevich che racconta la biografia di Renato Sacerdoti, presidente della Roma, fascista ed ebreo, che, quando furono promulgate le leggi razziali fu allontanato dalla squadra e mandato al confino nonostante fosse un veterano della marcia su Roma. Il libro aggiunge che tra i fondatori della Roma c’erano le grandi famiglie ebree: Spagnoletto, Coen, Della Seta, Ascarelli, Spizzichino... Nel “covo” della Lazio mi spiegano invece che Lotito è odiato dai suoi ultrà schizofascisti perché «ha mostrato gli attributi» e perciò vive sotto scorta. E mi portano in casa di Mauro a guardare un video con i cori laziali contro Lotito. Sgolandosi e dimenandosi questi ultrà urlano al loro presidente: «Lotito infame, Lotito ebreo».

E finalmente capisco che a Roma il vero nemico degli ultrà è lo sbirro. È Franco Gabrielli, il prefetto, il capo della polizia che ha messo le telecamere nelle curve dove la folla protegge e nasconde i vigliacchi, gli attentatori, i razzisti. Lo stadio infatti è l’anomìa, la dimensione del fuorilegge, l’impunità appunto, che nel calcio è molto antica, almeno quanto le corna dell’arbitro. E si capisce che per gli estremisti le telecamere siano molto più pericolose di quell’elicottero che ai vecchi tempi ogni tanto si abbassava, faceva vento, emetteva fantastici fasci di luce rossa, con un effetto cinema che piaceva molto ai beduini, agli ultrà in cerca di sensazioni forti. Ecco perché, in mattinata, quel Lotito che portava i fiori in Sinagoga è sembrato a tutti quasi imbarazzato, di sicuro meno insolente e gradasso del solito. Uno degli omoni che gli fanno corona, un dirigente con la cravatta nera e lo stemma della squadra, mi confessa: «Non l’avevo mai visto così. Ascolta la voce, è strana; come se dice, è ‘na voce cotta». E voleva dire rotta. Dice Lotito: «Io li ho combattuti ». Chiediamo: «Quando?». Risponde: «In illo temporis» con il suo famoso latinorum, quello di «est modus in sciaradis». Poi evoca il complotto e aggiunge, con la voce che davvero gli si rompe: «Quelle figurine sono state preparate artatamente». Ripete l’avverbio artatamente almeno tre volte. Lo scandisce pure: «ar-ta-ta-men-te».

La signora ebrea che mi accompagna è convinta che «gli ultrà romanisti e gli ultrà laziali, solitamente divisi dalla stupidità del calcio, sono invece uniti nell’uso di un antisemitismo cieco che non capiscono, e che a loro arriva come un’eco. E poiché sono, anche loro, cretini intelligenti visto che smanettano google, invece di mettere la maglietta giallorossa al solito Shylock con il naso adunco che si fa pagare in libbre di carne umana, tirano fuori Anna Frank. Non sanno che è olandese, non sanno come è morta, sanno però che scrisse un diario che non hanno letto, e che è ebrea come tutti i nemici. Sono confusi come il loro presidente, ma la confusione non assolve nessuno». Confuso, dunque? Lunedì sera, quando organizzava la cerimonia di riparazione, cercando al telefono un consenso dalla Comunità ebraica che non gli è arrivato, Lotito non sapeva dove sta la Sinagoga, e chiedeva con insistenza l’indirizzo di una lapide, di una stele, di un monumento: «C’è la lapide ai deportati», gli hanno suggerito. E lui: «Quali?». Risposta: «Quelli del 16 ottobre». E Lotito: «Ma quale 16 ottobre, domani è 24 ottobre».

Chiedo, nel covo della Lazio: «Sapete cosa accadde il 16 ottobre del 1943?». Ma la discussione diventa difficile e dunque evito l’interrogazione. Di sicuro sanno più di Anna Frank che del “sabato nero” nel ghetto di Roma. Dice la mia amica ebrea: «Mai visto un antisemitismo così. E non crediate che quest’intossicazione plebea sia soltanto di destra». E però ieri la tv ha mostrato le svastiche sui muri e, a San Giovanni, la scritta «Anna Frank cantastorie». A Prati, in via Cola di Rienzo: «Ogni palestinese è come un camerata / Stesso nemico stessa barricata ». Sull’antisemitismo a Roma è stato scritto molto. Salda la sottocultura terzomondista alla pulsioni neofasciste: xenofobia e saluti romani. Le provocazioni hanno coinvolto persino l’Organizzazione dei partigiani (Anpi). E ovviamente la Rete è piena di immondizie, «Roma è fragile, più di Tel Aviv» ripetono quelli della Comunità ebraica. «A Tel Aviv, i commando palestinesi, che combattono l’esistenza degli ebrei di Israele, esprimono un odio etnico e religioso che ha i suoi interessi economici e le sue radici nella storia, si muovono dunque nel codice della spietatezza e qualche volta persino della dignità della guerra. A Roma invece si nutrono di un tifo ridotto a immondezzaio». A sera, quando termina la mia full immersion laziale, due tifosi mi inseguono: «Te dobbiamo ringrazià, mica lo sapevamo che Anna Franche era stata presa al ghetto de Roma, il 16 ottobre del 1943».

LA REPUBBLICA - Matteo Pinci: 'L’antisemitismo non è uno scherzo guai ad abbassare la guardia'

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Tal Banin

 In Italia arrivò vent’anni fa: Tal Banin, primo israeliano a giocare in Serie A, oggi vive a Tel Aviv, commenta lo sport in tv e ha un figlio nelle forze speciali antiterrorismo.

Tal, ha saputo delle immagini di Anna Frank usate dai tifosi della Lazio come un insulto? «Ho letto. Mi ricordo che nel ‘97, al mio primo anno al Brescia, prima della partita contro la Lazio qualcosa successe: io non ne sapevo nulla, nemmeno capivo l’italiano, ma mi raccontarono che arrivò una telefonata strana, come una minaccia, per la mia religione. Ma non facciamo passare l’idea che tutti i tifosi della Lazio siano così».

Lei è di religione ebraica, ha mai vissuto episodi di intolleranza? «No, io no, anzi: il mio migliore amico, quando giocavo in Francia, al Cannes, era Kader Ferhaoui, algerino e musulmano: nel 2017, in questo momento storico, nessuno deve permettersi di discriminare nessuno per il colore della pelle o per la religione. Sono cose da persone ignoranti e l’ignoranza oggi non è più tollerabile».

Eppure in qualche stadio capitano ancora episodi come quello dell’Olimpico. «Nel calcio ci sono state delle storie vergognose, il mio popolo ha sofferto molto per questi gesti. Ma ora gli episodi stanno diventando sporadici. Su Facebook ho tanti tifosi che mi seguono e ho visto anche alcune curve nel mondo che hanno esposto bandiere di Israele come segno di pace. Certo non bisogna mai abbassare la guardia».

In Italia ci fu il caso del suo connazionale Rosenthal, l’Udinese fu costretta a rinunciare al suo acquisto per le intimidazioni antisemite di alcuni tifosi. «Avevo parlato con Rosenthal, prima di venire. E pure a me qualche tifoso fece dei cori, ma lo scoprivo dai giornali o dai compagni, perché all’inizio non capivo la lingua. Ciò nonostante, Brescia è casa mia: sono stato benissimo in Italia e tifo sempre per la nazionale italiana».

Le istituzioni fanno abbastanza per arginare il fenomeno? «In Inghilterra lo hanno fatto: avevano un problema negli stadi e lo hanno risolto, fai risse o un ululato razzista e finisci in carcere. Con religione e razza non si scherza, certi atteggiamenti vanno puniti. Ma il problema è culturale: bisognerebbe iniziare a casa, prima ancora che nelle scuole, a insegnare la storia. Siamo stanchi di dover fare attenzione ogni volta che una squadra di Israele va a giocare fuori. E vale lo stesso per quei ragazzi di colore che vengono insultati negli stadi e non solo».

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