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Corriere della Sera - Il Giornale Rassegna Stampa
13.10.2017 Stati Uniti/Unesco: una scelta doverosa, le responsabilità dell'Italia
Analisi di Paolo Mieli, Fiamma Nirenstein

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale
Autore: Paolo Mieli - Fiamma Nirenstein
Titolo: «Sull’Unesco troppe distrazioni - Gli Usa fuori dall'Unesco: 'Pregiudizi su Israele'. Esce pure Gerusalemme»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/10/2017, a pag. 1-26, con il titolo "Sull’Unesco troppe distrazioni", l'editoriale di Paolo Mieli; con il titolo "Gli Usa fuori dall'Unesco: 'Pregiudizi su Israele'. Esce pure Gerusalemme", l'analisi di Fiamma Nirenstein.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Paolo Mieli: "Sull’Unesco troppe distrazioni"

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Paolo Mieli

La decisione statunitense di lasciare, entro la fine del 2018, l’Unesco (che non finanziavano più già dal 2011), a causa della sua comprovata ostilità allo Stato di Israele, non è manifestamente impropria e sarà utile, si spera, a puntare un riflettore sull’inesorabile deriva presa negli ultimi decenni dall’agenzia culturale delle Nazioni Unite. A partire dal 2019 gli Stati Uniti resteranno a Parigi dove ha sede l’Unesco come «osservatori», sia pure da «non membri». È una decisione presa in extremis, appena un attimo prima che sia nominato il nuovo direttore generale dell’Unesco stessa. Un esponente politico del Qatar, Hamad bin Abdulaziz Kawari, al primo provvisorio voto per l’importante incarico, ha ottenuto il maggior numero di suffragi. E il Qatar — ricordiamolo — è da tempo identificato come uno dei quattro o cinque Paesi al mondo più inclini ad alimentare il fondamentalismo islamico. In Italia questo problema è poco avvertito ed è ipotizzabile che all’origine della nostra distrazione sia la generosità con la quale l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani si è sempre mostrato disponibile a investire nel nostro Paese.

 

L’indulgenza italiana nei confronti del Qatar è iniziata ai tempi del governo presieduto da Mario Monti: l’economia — per usare un eufemismo — andava male e i soldi dell’emirato, in quel- l’emergenza, furono considerati benvenuti. Vanno inserite in questo quadro una serie di operazioni immobiliari e finanziarie in Italia. Il Qatar ha acquistato grattacieli a Milano, un bel pezzo di Costa Smeralda, il gruppo Valentino, una parte del gruppo Cremonini, numerosi hotel di lusso. O ltre allo stanziamento di venticinque milioni di euro per la costruzione di oltre trenta moschee e centri islamici nel nostro Paese.

Ai tempi in cui presidente del Consiglio era Matteo Renzi, l’ex ministro della Cultura del Qatar, il succitato al Kawari, fu ricevuto dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini per un accordo con l’università romana di Tor Vergata che gli conferì una laurea «honoris causa» (concessa in maniera assai affrettata, tra i mugugni degli accademici più sensibili al decoro del loro ateneo). Un anno fa Kawari incontrò di nuovo Stefania Giannini e stavolta anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan assieme a quello della Cultura Dario Franceschini. Quest’«operazione simpatia» (accompagnata dalla promessa di nuove generose elargizioni) ha fatto sì che l’Italia lo abbia sempre appoggiato per l’elezione a Direttore generale dell’Unesco come successore dell’attuale direttrice, la bulgara Irina Bokova. Shimon Samuels, direttore del Centro Wiesenthal, a questo punto ha ricordato alla distratta Italia e agli altri sponsor del discusso uomo politico che fu proprio Kawari a far designare nel 2010 — sempre dall’Unesco — Doha «capitale della cultura araba»: dopodiché nella fiera internazionale del libro della principale città del Qatar furono esposti ben trentacinque titoli antisemiti tra cui nove edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion e quattro del Mein Kampf . Kawari — come proprio ieri ha ricordato sul Foglio Giulio Meotti — ha per di più curato (firmandone la prefazione) Jerusalem in the Eyes of the Poets . Un libro che — avvalendosi di una testimonianza di Roger Garaudy, l’ex comunista francese convertito all’islamismo più radicale — denuncia il «controllo degli ebrei» (sottolineiamo: qui si parla di ebrei, non di israeliani) su media e case editrici degli Stati Uniti.

Quanto a Israele, il volume prefato da Kawari stabilisce che lo Stato ebraico «è responsabile per la guerra civile in Libano, per la prima e la seconda Guerra del golfo, per l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, per il caos in Sudan e in Egitto» . Ma come è possibile che personaggi del genere siano anche solo presi in considerazione per guidare l’Unesco? La risposta è sempre la stessa. Il Qatar ha «donato» all’Unesco dieci milioni di dollari (non è il solo: l’Arabia Saudita ne regalò venti e il re Abdullah fu immediatamente insignito della medaglia per «la cultura del dialogo e della pace»). Per quel che riguarda l’Italia, poi, dobbiamo considerarci recidivi in questo genere di impresa: in passato sostenemmo la nomina a quello stesso incarico del-l’esponente egiziano Farouk Hosni. Hosni poi saltò allorché vennero rese note alcune sue prese di posizione inequivocabilmente antiebraiche (tra l’altro come ministro della Cultura si era detto disponibile a bruciare «di persona» libri israeliani nel caso qualcuno avesse pensato di introdurli nella biblioteca di Alessandria e aveva fatto bandire dalle sale cinematografiche il film «Schindler’s List»).

Può bastare? No. C’è un problema specifico tra Unesco e Israele. Esattamente un anno fa l’Unesco ha approvato una mozione in cui il Muro del Pianto non veniva più identificata con il nome ebraico «Kotel» ma con quello arabo «al Burak». A un tempo la Spianata delle moschee di Gerusalemme considerata sacra sia dai musulmani che dagli ebrei veniva chiamata solo con il nome islamico Al Haram Al Sharif. Ne è venuta fuori una tempesta intercontinentale. Persino la Bokova, protestò: «L’eredità di Gerusalemme è indivisibile, e ciascuna delle sue comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della sua storia e del rapporto con la città», disse. Anche l’Italia, che al momento del voto su questa imbarazzante risoluzione si era astenuta, fu costretta a rivedere le proprie posizioni.

Si dirà: sono controversie che hanno origini recenti e hanno colto i nostri governi impreparati. Non è così. La guerra dell’Unesco contro Israele iniziò nel 1974 quando lo Stato ebraico fu cacciato (per poi essere riammesso due anni dopo) dall’agenzia, all’epoca guidata dal senegalese Amadhou Mahtar M’Bow. E raggiunse l’apice l’anno passato quando, assieme alla non riconducibilità a Israele del Muro del Pianto, in una riunione a Cracovia, l’Unesco definì Israele «potenza occupante» e la Tomba dei Patriarchi di Hebron un sito «palestinese». Qualcuno sosterrà adesso che la decisione americana di rompere con l’agenzia per la cultura delle Nazioni Unite è stata precipitosa. Non è così. Forse servirà, anzi, a impedire all’ultimo minuto utile che l’uomo politico qatariota sia chiamato a guidare l’organizzazione che per conto delle Nazioni Unite dovrà valutare i danni arrecati da Daesh a Palmira senza ricondurne, per qualche via tortuosa, la responsabilità allo Stato ebraico.

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Gli Usa fuori dall'Unesco: 'Pregiudizi su Israele'. Esce pure Gerusalemme"

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Fiamma Nirenstein

Gerusalemme - Sembra che l'Unesco non possa più fare proprio tutto quello che gli pare, assegnare la tomba a Hebron dei patriarchi ebrei Abramo, Isacco e Giacobbe al patrimonio islamico come ha fatto quest'anno in luglio, o dichiarare che Gerusalemme, compreso il muro del Pianto, è tutta quanta araba e appartiene all'islam anch'essa. Magari dovrà organizzarsi diversamente, abbandonare la sua totale arbitrarietà interessata, come quando ha dichiarato Asmara patrimonio dell'umanità o ha fatto un piacere alla Cina esaltando la riserva naturale tibetana di Hoh Xil Qinghai (Achen Gnagyap in tibetano) come se la Cina la preservasse e non la occupasse, fra le proteste dei tibetani. E soprattutto, piantarla con la persecuzione di Israele.

L'organizzazione scientifica e culturale delle Nazioni Unite ha esagerato lasciandosi scappare il suo vecchio tic antimperialista e terzomondista, per il quale era già stata lasciata degli Usa nel 1984 e dall'Inghilterra nel 1985 (poi rientrare di fronte a promesse non mantenute). Ultimamente ha voluto sbalordire il mondo con la sua inverosimile ignoranza nella negazione di ogni radice ebraica in Israele. Ha detto l'ambasciatore all'Onu di Israele Danny Danon che «finalmente qui si paga un prezzo per le vergognose decisioni adottate negli anni passati», e che forse «si è arrivati all'alba di una nuova era in cui prendere ingiustificate e aggressive decisioni antisraeliane ha una conseguenza». La svolta ha la faccia giovane e decisa della rappresentante dell'amministrazione Trump all'Onu, un viso da indiana, Nikki Haley, che fin dal primo giorno avverti dagli scranni dell'organizzazione: così non si può continuare, non ci stiamo più ad avallare il pregiudizio, le continue ossessive e fantasmagoriche risoluzioni che scippano gli ebrei della loro appartenenza storica alla terra d'Israele, negando per esempio che la tomba dei patriarchi di Hebron sia loro retaggio e facendo lo stesso con la città che per gli ebrei è la vita stessa: Gerusalemme.

Un segnale di amicizia non solo culturale, ma anche politica di fronte all'islam estremo, il terrorismo, la palude mediorentale, e adesso, all'orizzonte, la questione dell'accordo con l'Iran da cui Trump intende ritirare gli Usa. C'è anche la spesa ingente che tutto il mondo paga per l'Unesco, gli Usa le devono 500 milioni, e Rex Tyllerson vuole imporre una politica che «fermi il sangue». L'Unesco è ostile da sempre agli Usa, lo ripaga con scelte controverse, debolucce, spesso interessate. La portavoce del Dipartimento ha annunciato che «la decisione non è stata presa a cuor leggero, ma riflette le preoccupazioni americane su molte mancanze, il bisogno di riforme fondamentali, e il continuo pregiudizio contro Israele». E dopo gli Usa anche Gerusalemme annuncia il suo addio all'organizzazione, sempre per lo stesso motivo. Rappresaglia per l'ingresso della Palestina (formalmente l'Anp di Abu Mazen) nel 2011 ma soprattutto le risoluzioni su Gerusalemme quella che ha suscitato le controversie più profonde. Il premier israeliano Benjamin Netanyhau aveva definito la decisione degli Usa di lasciare come una scelta «coraggiosa ed etica, dato che l'Unesco è diventata un teatro dell'assurdo e perché, invece di preservare la storia, la distorce».

Chiudendo l'ovile dopo la fuga delle pecore, l'Unesco ha evitato la votazione di un remake delle solite dichiarazione che niente è ebraico. Ma ormai è tardi. È in predicato di divenire presidente dell'organizzazione dopo Irina Bokova, che se ne va, un personaggio addirittura in odore di antisemitismo militante e diffusione di libelli, Hamad bin Abdulaziz al Kawari, del Qatar, che nelle votazioni guida con 20 dei 30 voti necessari; al secondo posto appare Audrey Azoulay, francese, come al Kawari ex ministro degli esteri, con 13 voti per ora. Giovedì l'eventuale ballottaggio. Chiunque vinca, l'Onu è avvertito: il disinvestimento dall'Unesco può diventare disinvestimento dall'Onu.

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