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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
03.07.2017 Qatar e Al Jazeera, ecco chi diffonde il terrorismo
La cronaca omissiva di Giordano Stabile, la disinformazione di Francesca Caferri

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Giordano Stabile - Francesca Caferri
Titolo: «Il Qatar non molla, ultimatum respinto: 'I Paesi del Golfo vogliono la guerra' - Politica, jihad e tabù così Al Jazeera è diventata il nemico»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/07/2017, a pag. 123, con il titolo "Il Qatar non molla, ultimatum respinto: 'I Paesi del Golfo vogliono la guerra' ", la cronaca di Giordano Stabile; dalla REPUBBLICA, a pag. 12, con il titolo "Il Qatar non molla, ultimatum respinto: 'I Paesi del Golfo vogliono la guerra' - Politica, jihad e tabù così Al Jazeera è diventata il nemico", il commento di Francesca Caferri.

Il Qatar, stretto alleato di Iran, Turchia e Fratellanza musulmana, è da tempo grande sponsor del terrorismo in Medio Oriente. Giordano Stabile descrive il Qatar - pur senza edulcorare i tratti del regime - come un Paese assediato dall'asse Arabia Saudita - Egitto, che vorrebbe la guerra.

Molto peggio fa Francesca Caferri, che descrive Al Jazeera come una televisione "indipendente", omettendo che dipende dal regime qatarino e che per anni ha sostenuto le politiche della Fratellanza musulmana (dopo aver dato voce, unico tra i media internazionali, a Osama Bin Laden e Al Qaeda). Secondo Caferri siamo di fronte a "un tentativo di mettere a tacere Al Jazeera", perché questa televisione "dà fastidio". La giornalista riferisce di generiche polemiche, ma non affronta il motivo fondamentale che le ha mosse: il sostegno del Qatar e della sua tv a terrorismo, Iran, Fratellanza musulmana.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Il Qatar non molla, ultimatum respinto: 'I Paesi del Golfo vogliono la guerra' "

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Giordano Stabile

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L’ultimatum scade oggi e l’unica cosa sicura è che il Qatar lo respingerà. Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Bahrein hanno alzato l’asticella e ora dovranno trovare misure ancora più dure per costringere l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani alla resa. Un suo ritratto, un po’ stile Warhol, realizzato da un artista locale, è oramai onnipresente a Doha, dalle facciate dei grattacieli alle magliette indossate dalla gente nelle strade. Il simbolo della «resistenza».

La risposta del ministro degli Esteri Mohammed bin Abdulrahman al-Thani alle tredici richieste degli ex alleati è stata netta. «La lista è stata fatta per essere respinta». Come dire «sono loro che vogliono la guerra». Al Qatar viene chiesto di fermare i finanziamenti ai gruppi terroristici, compresi quelli legati ai Fratelli musulmani, come Hamas, rompere le relazioni con l’Iran e soprattutto di chiudere Al-Jazeera e rispedire a casa le migliaia di soldati turchi di base vicino alla capitale.

I primi due aspetti possono essere presi in considerazione, ma l’emiro è inamovibile sulla tv fondata dal padre Hamad e sull’alleanza con il presidente Recep Tayyip Erdogan. L’emirato ha retto finora l’embargo. Frutta, carne, altri alimenti arrivano dalla Turchia, dall’Iran, dall’Oman. L’impatto sulla Borsa è stato duro all’inizio ma è in parte riassorbito, con un perdita dell’11 per cento in un mese, perché Doha ha riserve valutarie pari al 250 per cento del Pil e può resistere mesi.

L’opzione militare non è ancora sul tavolo. C’è il veto degli Stati Uniti, che vicino a Doha hanno una base con 14 mila uomini e il comando per il Medio Oriente, il Centcom. Ci sono poi dai 2 a 3 mila soldati turchi, in rapido aumento, a fare da scudo. Le forze saudite sono impelagate nel Nord dello Yemen, quelle emiratine vicino ad Aden e il restante non è sufficiente. Dovrebbe intervenire l’Egitto, in modo massiccio.

Soltanto il Bahrein, con il suo ministro degli Esteri Khalid bin Ahmad al-Khalifa, ha chiesto l’intervento armato. Manama è furiosa perché i servizi egiziani hanno fornito prove che il Qatar appoggia segretamente i ribelli sciiti che vogliono cacciare la casa regnante sunnita. Gli Emirati spingono per sanzioni «più dure». Un misura sanguinosa potrebbe essere l’ordine alle banche del Golfo di ritirare i depositi e i prestiti interbancari dal Qatar. Un’altra il bando a tutti gli investimenti nell’Emirato.

Un passo ancora più estremo sarebbe l’espulsione del Qatar dal Consiglio per la cooperazione nel Golfo, conosciuto con l’acronimo inglese Gcc, fondato nel 1981 per creare un bastione sunnita contro la Repubblica islamica sciita dell’Iran. Ora il Gcc è spaccato, con Arabia, Emirati, Bahrein da una parte, il Qatar dall’altra, e Kuwait e Oman su posizioni neutrali, ma in realtà simpatizzanti per il Qatar.

«Il Gcc è nato per contrastare le minacce esterne - ha ribattuto il ministro degli Esteri qatarino. Se la minaccia arriva dall’interno viene meno la stessa sostenibilità dell’organizzazione». Cioè salta il bastione anti-Iran. Quello che temono a Washington. Gli altri a preoccuparsi sono gli europei. Mettere in ginocchio il Qatar significa creare un’onda di crisi. L’emirato ha quote strategiche, tanto per dire, nel gruppo automobilistico Psa, in Volkswagen, in Bnp Paribas e in mezza City di Londra.

LA REPUBBLICA - Francesca Caferri: "Politica, jihad e tabù così Al Jazeera è diventata il nemico"

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Francesca Caferri

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In principio fu un ufficio sperduto praticamente del deserto, un’antenna parabolica piazzata nel nulla e una sola linea telefonica per chiamare all’estero. Chi in quegli anni andava in cerca della nuova televisione araba, quella che iniziava a far parlare di sé in tutta la regione, inequivocabilmente aveva la stessa reazione: «Tutto qui?».

Era il 1996 e Al Jazeera aveva iniziato a trasmettere da poco. Eppure, sin dall’inizio, il canale all news nato da un’idea dello sceicco Hamad Bin Khalifa Al Thani, l’uomo che in pochi anni re-inventò una nazione, il Qatar appunto, fu una rivoluzione. In un mondo arabo abituato ai media di Stato, ai titoli di giornali e telegiornali equamente spartiti fra l’apertura di un ospedale o l’inaugurazione di una strada da parte del leader di turno, nelle case di milioni di persone arrivavano improvvisamente notizie vere. Oltre a talk show in cui a parlare erano non solo i governi ma anche le opposizioni. A trasmissioni riservate ai temi più controversi, dal sesso visto dalle donne all’omosessualità. E alle prediche del discusso sceicco Al Qaradawi, volto dei Fratelli musulmani. «L’opinione e l’opinione contraria » fu sin dall’inizio la parola d’ordine di Al Jazeera, ricorda Donatella Della Ratta, autrice nel lontano 2005 di “Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio”, libro ancora oggi fondamentale. Il mix era del tutto nuovo per una regione fino ad allora abituata solo a un’opinione: quella del governante di turno. E dove i fatti non esistevano. La novità da subito portò guai all’emittente e al suo sponsor qatarino: dalle accuse di sionismo per aver dato la parola al “nemico” israeliano, ai richiami ufficiali agli ambasciatori di Doha nella regione, Al Jazeera non ebbe mai vita tranquilla.

Poi venne l’11 settembre e dal fiume che erano, le polemiche si trasformarono in oceano. Il volto di Osama bin Laden accompagnato dal bollino dorato della tv si trasformò in un incubo per civili e governi nel mondo occidentale: ad Al Jazeera il leader di Al Qaeda faceva recapitare i messaggi dal suo nascondiglio afgano, ad Al Jazeera concesse l’unica intervista post-11 settembre. Per chiunque facesse informazione internazionale in quel periodo sintonizzarsi sul canale era un obbligo. Da quei giorni di gloria e di polemiche si può dire che l’emittente non si sia più liberata: la televisione in lingua araba non è riuscita a scrollarsi di dosso l’etichetta di “vicina al terrorismo”. Quella in lingua inglese, nata nel 2006, ha dovuto difendersi da accuse simili fin dalla sua nascita, nonostante avesse rispetto alla sorella maggiore standard giornalistici e in generale professionali ben più elevati. I momenti di gloria, per entrambi i network, non sono mancati: nel 2001 quando iniziò l’attacco guidato dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan i giornalisti di Al Jazeera Arabic erano gli unici a Kabul. Lo stesso accadde a Gaza nel 2008, quando a brillare furono i reporter di Al Jazeera English. Ma l’apice del successo e delle polemiche arrivò nel 2011 quando la televisione, e con essa il Qatar, divenne parte integrante delle rivoluzioni arabe, dando spazio alle agende degli oppositori in Tunisia, Egitto, Yemen e Libia (molto meno in Siria).

Fu quello il momento in cui l’establishment egiziano (oggi al potere con l’ex generale Abdel Fattah Al Sisi) e quello saudita, che con i qatarini e la loro televisione avevano da anni un conto aperto, decisero una volta per tutte che la voce di Al Jazeera avrebbe dovuto essere spenta. Troppo ambiziosa, troppo indipendente, troppo rumorosa: esattamente come il Qatar dello sceicco Hamad. Quattro anni fa, quando il sovrano fu costretto alle dimissioni dalle pressioni saudite, anche Al Jazeera venne ridimensionata. I soldi, che fino ad allora non erano mai stati un problema, iniziarono a scarseggiare. Alcuni dei nomi più importanti lasciarono il network. Il tentativo di lanciare un canale americano fu prematuramente portato a termine. Ma Al Jazeera, sopratutto nella sua versione araba, ha continuato a parlare: e a dare fastidio. In difesa del canale dall’attacco sferrato dal Cairo e da Riad negli ultimi giorni sono scesi un po’ tutti: da un quotidiano progressista come il britannico Guardian («azione ridicola»), a un settimanale conservatore come l’Economist («tentativo oltraggioso»), alle Nazioni Unite («attacco inaccettabile alla libertà di informazione») ma le parole migliore le hanno scelte i giornalisti del network in lingua inglese sul loro sito: «Il tentativo di mettere a tacere Al Jazeera è un tentativo di mettere a tacere tutto il giornalismo indipendente nella regione».

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