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Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
21.04.2017 25 aprile: insulti agli ebrei e alla storia
Editoriale di Paolo Mieli, analisi di Umberto Gentiloni, commento ironico di Andrea Marcenaro

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio
Autore: Paolo Mieli - Umberto Gentiloni - Andrea Marcenaro
Titolo: «Il 25 aprile e i meriti degli ebrei - Quando il Führer si alleò a Gerusalemme con il mufti arabo - Andrea's Version»

Riprendiamo dal CORRIERE DELLA SERA di oggi, 21/04/2017, a pag. 1, con il titolo "Il 25 aprile e i meriti degli ebrei", l'editoriale di Paolo Mieli; dalla REPUBBLICA, a pag. 20, con il titolo "Quando il Führer si alleò a Gerusalemme con il mufti arabo", l'analisi di Umberto Gentiloni; dal FOGLIO, a pag. 1, "Andrea's Version", di Andrea Marcenaro.

A destra: il simbolo della Brigata ebraica

Ecco gli articoli:

CORRIERE DELLA SERA - Paolo Mieli: "Il 25 aprile e i meriti degli ebrei"

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Paolo Mieli

Appare più che giustificata la decisione della presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello di non aderire alla manifestazione promossa dall’Anpi in occasione del 25 Aprile e di promuoverne una propria. Eviterà così agli ebrei romani di essere coinvolti in quelli che il giorno dopo sarebbero stati definiti dai media «incidenti» e che sono invece aggressioni a coloro che sfilano dietro le bandiere della Brigata ebraica. Da moltissimo tempo la spregevole usanza delle offese (o peggio) alle insegne di quella Brigata inquina le cerimonie italiane in onore della Resistenza. In misura intermittente, per fortuna. C’è stato persino chi (Ugo Giannangeli su «Palestina rossa») ha messo in dubbio l’opportunità che quei vessilli, quasi fossero abusivi, vengano issati nei cortei in memoria della nostra guerra di Liberazione. Ricordiamo brevemente di cosa stiamo parlando. La Jewish Brigade fu istituita il 20 settembre del 1944 per decisione del primo ministro britannico Winston Churchill e, al comando del canadese Ernest Frank Benjamin, fu inquadrata nell’esercito che combatteva contro i tedeschi. In realtà un Reggimento palestinese era nato molto prima, nel 1941, quando l’avanzata di Erich Rommel pareva incontenibile e Londra fece appello a «tutte le forze disponibili» per contrastare l’attacco nazista nell’Africa settentrionale.

A quel tempo gli ebrei già stanziati in Palestina si divisero: la parte maggioritaria, inquadrata nell’Haganah (il nucleo militare costitutivo del futuro esercito di Israele), accolse l’appello del governo inglese. Sicché molti israeliti di Palestina si arruolarono per combattere i nazisti: in quei giorni del ‘41 - nel corso di un’operazione in Siria, Paese all’epoca controllato dalla Francia collaborazionista di Vichy - Moshè Dayan, l’uomo che nel ’67 avrebbe guidato i soldati israeliani nella «guerra dei sei giorni», perse l’ occhio sinistro, a coprire il quale portò poi una benda nera per il resto della vita. Altri, come Enzo Sereni e Hanna Senesh, persero eroicamente la vita in Europa. Fu, quella di schierarsi con gli alleati, una scelta sofferta per gli ebrei di Palestina. E, a suo modo, lacerante. Già nel ’41 la cosiddetta «Banda Stern» (in cui militava il futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir) e, dopo il ’44, l’«Irgun» (che tra i suoi annoverava un altro futuro premier dello Stato ebraico, Menachem Begin) decisero di rompere con la maggioranza sionista e di non concedere alcuna tregua agli inglesi. David Ben Gurion, invece - anche in considerazione del fatto che la parte prevalente dei palestinesi guidata dal mufti Amin al-Husseini si era schierata al fianco di Hitler - tenne duro e mandò migliaia dei suoi uomini a combattere contro il Terzo Reich. In Medio Oriente, ma anche nell’Europa orientale, in Olanda, Belgio, Francia, soprattutto in Italia. E qui siamo al motivo per cui molti ebrei (assieme beninteso a parecchi non ebrei) partecipano da anni alle manifestazioni che celebrano la Resistenza dietro le insegne della Jewish Brigade.

Lo fanno per onorare la memoria dei loro correligionari provenienti dalla Palestina che nel 1944, a novembre, sbarcarono sul suolo italiano, furono riaddestrati a Taranto per imparare a guerreggiare nel nostro Paese e presero parte all’ultima, decisiva fase della lotta di Liberazione: dai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945) alla «battaglia dei tre fiumi» (9 e 10 aprile 1945) che culminò con lo sfondamento della Linea gotica. Combatterono sotto una bandiera identitaria (tre strisce - azzurra, bianca e azzurra – con al centro una stella di Davide); molti persero la vita; varie lapidi, la più importante a Ravenna, ricordano quei caduti per la nostra libertà che ancora oggi riposano in cimiteri italiani, in particolare quello di Piangipane. Ed è assai significativo che proprio ieri, in Parlamento, sia giunta ad una tappa decisiva la meritoria proposta di legge (prima firmataria l’esponente pd Lia Quartapelle) perché alla Brigata ebraica sia conferita la medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza.

Questo spiega a quale titolo e in ricordo di cosa alcune persone sfileranno martedì prossimo sotto quelle bandiere. Vicende romane a parte, meno comprensibile (anche se nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il diritto di chiunque a partecipare a qualsiasi genere di manifestazione) è il motivo per cui – ad esempio - alla sfilata milanese del 25 Aprile abbia aderito il Bds, un movimento nato nel luglio 2005 che promuove «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» contro lo Stato di Israele (una campagna da cui si sono dissociati persino intellettuali notoriamente filopalestinesi e ostili allo Stato ebraico come Norman Finkelstein e Noam Chomsky). I Bds hanno annunciato che parteciperanno alla sfilata con cartelli in cui verranno ricordati «i nomi dei villaggi distrutti da Israele dal 1948 in poi». Un modo per riproporre la rappresentazione (non nuova) degli israeliani di oggi come eredi dei nazisti di ieri. E qui si capisce il loro scopo che con l’autentica Resistenza del ’43-‘45 - come hanno sottolineato ieri due storici assai sensibili ai valori dell’antifascismo, Guido Crainz e Giovanni Sabbatucci - non ha niente a che spartire. Appresa questa notizia, anche i rappresentanti milanesi della Jewish Brigade avevano deciso di ritirare le proprie insegne dalla manifestazione.

Ma c’è Anpi e Anpi. Quella milanese, con una presa di posizione sorprendentemente ferma, ha indotto la comunità ebraica ad un ripensamento. Roberto Cenati, presidente del comitato provinciale milanese dell’Associazione nazionale partigiani italiani, si è pubblicamente impegnato non solo a «isolare e respingere le provocazioni» contro i rappresentanti della Brigata ebraica ma ha tenuto a mettere in chiaro che chi offende il loro simbolo «ingiuria l’intero patrimonio storico della Resistenza italiana». Cenati ha fatto poi un assai significativo passo ulteriore invitando gli iscritti all’Anpi a «non aderire assolutamente all’appello del Bds». Un gesto di grande coraggio nel clima che si respira di questi tempi in Europa. Sembra incredibile che, in alcune città del nostro continente, degli ebrei (i quali sulle politiche dello Stato di Israele avranno, come è ovvio che sia, le opinioni più disparate) debbano essere costretti a «trattare» per il diritto a prender parte con dignità a manifestazioni in ricordo di un supplizio di cui furono le principali vittime. Anche se c’è da aggiungere che in altre città d’Europa – soprattutto in Francia – agli israeliti accade di peggio. E per fortuna qui in Italia esistono uomini come Cenati che, nei momenti decisivi, sanno prendere decisioni che non lasciano spazio ad ambiguità. Persone per il cui operato confidiamo che stavolta le insegne della Brigata ebraica (assieme a tutte le altre che si richiamano alla lotta di Liberazione ) saranno accolte da applausi. In parziale risarcimento dei ben udibili fischi degli anni passati. E a far dimenticare quel che nel frattempo sarà accaduto a Roma.

LA REPUBBLICA - Umberto Gentiloni: "Quando il Führer si alleò a Gerusalemme con il mufti arabo"

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Umberto Gentiloni

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Il Gran muftì passa in rassegna un reparto di SS musulmane al servizio di Hitler

«IL gran Mufti inizia il colloquio ringraziando il Führer per l’onore di averlo ricevuto e per l’opportunità di poter riferire della grande ammirazione che il mondo arabo prova nei confronti del Reich tedesco». Sono le prime parole di una conversazione tra Haj Amin al-Husseini e Adolf Hitler, a Berlino il 28 novembre 1941. Un incontro significativo che prende in esame la possibilità di una dichiarazione pubblica del capo del nazismo «sulle ragioni e le opportunità che guidano la causa dei popoli arabi» e che offre una serie di conferme sulle convergenti politiche nei territori dell’impero ottomano passati dopo la prima guerra mondiale sotto il mandato della Gran Bretagna. Nulla di sconvolgente intendiamoci. Si tratta di un’offerta di collaborazione e intesa per potersi giovare delle attenzioni di chi sembra in procinto di vincere la guerra: uno scambio di attenzioni e rassicurazioni. Il gran Mufti di Gerusalemme (1897-1974) è la figura più rappresentativa del mondo palestinese sunnita, in carica dal 1921 si era messo in evidenza per una serie di iniziative e sollevazioni in chiave anti-inglese: prima nei territori della Palestina mandataria e in un secondo momento in Iraq legandosi a movimenti e gruppi fautori della lotta contro la presenza inglese in medio oriente. Sconfitto e ricercato si rifugiò nel 1941 in Germania iniziando un’opera di propaganda favorevole al nazismo e alle sue strategie e iniziando così a reclutare volontari, una sorta di legione araba, pronti a sostenere l’impegno militare della Germania nazista.

Negli anni di guerra tesse relazioni con Ribbentrop e altri uomini di punta del regime. La sua appare come la posizione di un leader nazionalista arabo impegnato nelle strategie di lotta di un movimento di liberazione che vuol essere riconosciuto e difeso. Due le chiavi prevalenti: una sollevazione anti-britannica che si salda con la possibilità di trovare interlocutori e sostenitori potenziali tra le forze dell’Asse (la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini). Queste premesse costitutive rafforzano la convinzione che ogni spinta di emigrazione ebraica verso la Palestina debba essere fermata e combattuta e che le ragioni dell’affer-mazione del popolo arabo (identitarie e nazionali) possano essere avvantaggiate da un esito anti-britannico del conflitto. Il colloquio avviene alla fine del 1941, la Shoah è già in atto; l’uccisione di massa degli ebrei nei territori conquistati dopo l’attacco all’Unione Sovietica da parte delle Einsatzgruppen ha già numeri impressionanti. Nessuna sovrapposizione quindi di cronologie o responsabilità. La partita sugli assetti del medio oriente post bellico è molto più lunga e complicata. Il memorandum dell’incontroconferma vedute e intenzioni unite ai calcoli su vantaggi e convenienze: «Gli arabi sono gli amici naturali della Germania visto che condividiamo gli stessi nemici: inglesi, ebrei e comunisti ». E in conclusione chi trascrive annota: «Il Mufti fa riferimento a una lettera che gli è giunta dal governo di Berlino. Il contenuto è chiaro. La Germania non fa richieste su territori arabi in Medio Oriente mentre riconosce e apprezza le spinte d’indipendenza e libertà che animano le popolazioni arabe. Tale sostegno si accompagna alla convinzione di dover eliminare e combattere l’aspirazione nazionale ebraica a una casa comune». Un confronto che richiama i significati della guerra, la composizione degli schieramenti, il peso di questioni antiche: la fine degli imperi e la disgregazione di realtà territoriali e forme di potere. Difficile immaginare che tutto questo avrebbe attraversato e incontrato il nostro 25 aprile.

IL FOGLIO - Andrea Marcenaro: "Andrea's Version"

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Andrea Marcenaro

Dunque. Si festeggia di nuovo, diciamo che si festeggia, il 25 aprile del 1945. Sarà che il nonno gliel’ha ingigantita, sarà che la nonna non poteva più andare a scuola, sarà che tenevano la fissa di campare, sarà chissà, sarà ’sta luna chiena, ’sta musica luntana, fatto sta che gli ebrei, italiani o no, qualche motivo per festeggiare questo cazzo di 25 aprile pare che ce l’abbiano. Poi ci sono i palestinesi. I palestinesi, che nel ’45 palestinesi non erano, sarà che il loro prete di Gerusalemme benediceva quelli del 24 aprile, sarà che gli stava sulle balle che la nonna degli ebrei studiasse, sarà che non capivano la fissa di quelli là di voler campare, sarà che hanno riscoperto il piacere di lanciare i tir sui nipoti ebrei dei nonni suddetti, sarà ’sta mezzaluna chiena, ’sta civiltà luntana, mettetela come vi pare, ma il 25 aprile dovrebbe star loro sul culo. Detto altrimenti: gli ebrei sono il cuore del ricordo, i palestinesi il colpo al cuore. Elementare. Ora: chi lo avvisa l’Anpi che Breznev è morto e la Le Pen è viva?

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