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Il Giornale Rassegna Stampa
03.09.2023 La truffa di Oslo: menzogne e ingenuità
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 03 settembre 2023
Pagina: 16
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «La truffa di Oslo: menzogne e ingenuità»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 03/09/2023,a pag.16, l'analisi di Fiamma Nirenstein.

A destra: Arafat con Abu Mazen

PM Netanyahu Appoints Fiamma Nirenstein as Ambassador to Italy | Prime  Minister's Office
Fiamma Nirenstein

Molti anni fa, quando sembra ancora che la Pace, il Nuovo Medio Oriente e altri encomiabili obiettivi fossero raggiungibili, all’aurora degli anni ’90, Uri Savir, il braccio destro di Shimon Peres, mi telefonò: “E’ possibile trovare un luogo di incontro segreto dove alcune persone importanti possano parlare di pace senza essere visti?”. La persona che ci fornì quel luogo segreto fu una gentildonna intelligente e sensibile, Bona Frescobaldi: così, nottetempo, in una delle più belle ville nobiliari nei dintorni di Firenze si compì un incontro storico fra ignoti partecipanti ebrei e palestinesi, una pietra miliare verso gli accordi di Oslo, un impegno di reciproca pace. Il più importante documento, cioè la Dichiarazione di principi degli accordi per un Governo ad Interim (DOP o Oslo 1) fu votata il 30 agosto dal governo in Israele e poi ratificato dalla stretta di mano fra Rabin e Arafat davanti alla Casa Bianca il 13 settembre 1993. Chiunque prese parte all’evento se ne senti fiero. Racconta Baiga Shohat, allora ministro dell’Economia, che nel giorno del voto israeliano era stato dato ai membri del governo solo un’oretta per leggere lo sconosciuto accordo: “Capimmo che era finalmente dopo tanto soffrire un accordo di pace, che i Palestinesi accettavano con la risoluzione 242 dell’ONU che prevede la trattativa, e che riconoscevano lo Stato d’Israele. E questo” dice Shohat “dopo che avevano perfino sostenuto Saddam Hussein durante la guerra del 91 saltando sui tetti mentre bombardava Israele”. L’entusiasmo era alle stelle.  Rabin era il più dubitoso e cauto. Comunque anche lui disse che alla peggio si sarebbero fermati i terroristi con la forza, e che quando si fa la pace, se ne devono sempre accettare i rischi. Il prezzo è stato terribile: non perché la pace non fosse, e non sia, specie per una democrazia il primo e il più desiderabile dei beni, come dice Tocqueville: ma devi sapere rinunciare al suo canto di sirena se l’interlocutore intende approfittarsene e mette in gioco dunque vite umane per suoi motivi ideologici, religiosi. Un pensiero utile anche oggi.  A 30 anni da quel giorno devo sinceramente dire che rimpiango persino la telefonata a Firenze, e tutte le parole che ho speso negli articoli encomiastici anche per il premio Nobel per la Pace che un anno dopo fu assegnato a Rabin, Shimon Peres, Arafat.  Questo, perché da Oslo scaturì una cascata di violenza palestinese più violenta che mai. IL terrorismo contro Israele conquistò con gli accordi Oslo uno spazio d’azione mai visto, traffici di armi e di terroristi si impossessarono del piccolo territorio dal confine nord col Libano fino a Gaza e dentro le città, da Gerusalemme a Tel Aviv a Natanya. 

Fu un’epidemia. Arafat, tornato, ebbe subito in mano Gerico, nel cuore dell’West Bank, e Gaza, confinante col mondo arabo e col sud del Paese. Due anni dopo, reinsediatosi a Ramallah, avrebbe avuto in mano tutte le città e i villaggi ad alta presenza palestinese, fino a coprire il 99 per cento della sua popolazione. Nessuno lo ricorda: aveva fondi e aiuti molto generosi, la maggior parte del territorio sotto la sua giurisdizione, e, dal 93,  cinque anni di tempo per stabilire, secondo gli accordi, con elezioni che non venivano mai (che poi si svolsero nel 2006 per non ripresentarsi mai più e lasciare in sella Abu Mazen) come disegnare il suo nuovo Stato, come organizzare le sue forze, e come porre fine alla persecuzione terroristica degli ebrei. Aveva il supporto di tutto il mondo. Doveva accettare finalmente l’esistenza degli ebrei come abitanti legittimi del loro Stato, lo Stato d’Israele. Questo, non è ancora avvenuto. Gli israeliani votarono all’unanimità, con due astensioni, per il piano. I mediorentalisti che avvertivano basandosi sulla conoscenza della cultura islamica la pericolosità dell’impresa, erano guardati come gufi, o come “coloni” con le mani sugli insediamenti. L’opposizione di destra era una minoranza esaltata, e purtroppo il risultato tragico e folle fu l’assassinio di Yitzhak Rabin, una ferita che non si rimargina. Se il rifiuto e quindi il bagno di sangue era prevedibile non lo era che un grande concerto di forze, prima fra tutte l’ONU e l’Unione Europea, avrebbero fatto dell’accordo un distorto manifesto di guerra alla politica di Israele, una guerra cocente che dura tuttora, basandosi per altro non sul testo del DOP ma su una reinvenzione falsificata. L’assunto fondamentale, che i territori occupati appartenessero di fatto ai palestinesi, e che la loro richiesta in primis doveva essere soddisfatta senza considerarne le conseguenze per la sicurezza dei cittadini israeliani, e in secondo luogo che difendersi dal terrorismo contenesse una sorta di ingiustizia genetica, legata al concetto di oppresso e di oppressore: l’Europa colonialista proiettava su Israele una storia cui gli ebrei scampati dalla Shoah erano totalmente estranei. Gli accordi di pace, violati palesemente innanzitutto dall’aggressione terroristica massiccia e senza precedenti, diventarono oggetto di discussione internazionale solo per cercare violazioni da parte di Israele, con conseguenti condanne. Senza nessuna base fattuale nel testo concordato, come ha studiato l’ambasciatore Alan Baker, allora convinto membro e sostenitore dell’accordo, e oggi studioso dell’argomento. L’accordo si basa sulle risoluzioni dell’ONU post guerra del ’67 (242) e del ’73 (338) che stabiliscono che ci debba essere un accordo “su territori” occupati per necessità nell’West Bank a seguito della “Guerra dei 6 giorni”, e sui vari trattati di pace con l’Egitto, con la Giordania oltre che sull’accordo col Libano, mai ratificato. Sono pochi punti e soprattutto fece testo uno scambio di lettere di Rabin con Arafat del 9 settembre 1993. Vi si dice che “tutti i temi relativo allo status permanente si risolveranno con trattative”, che in cinque anni di governo del OLP si deve arrivare a un accordo definitivo; e che il OLP rinuncia all’uso del terrorismo e di altre forme di violenza”. Parole che suggeriscono buona fede e rispetto e che sarebbero state importanti se fossero state rispettate, perché sono l’unica fonte legale esistente dei rapporti fra Israele e i palestinesi. Le carte dell’accordo, non un vero trattato ma un documento di impegno, stabiliscono che una nuova Autorità Palestinese gestita dall’OLP amministrerà il potere; la responsabilità, la giurisdizione delle aeree dell’West Bank rimanevano a Israele. Le aree molto popolate da palestinese (aree A e B) sarebbero state amministrate dall’OLP in attesa di deciderne il destino con una trattativa. Mai sono state dichiarate illegalmente occupate o proprietà palestinese; a Israele fu assegnata la giurisdizione sull’area C, dove sono dislocati i maggiori insediamenti e le istallazioni di sicurezza. Il seguito è un seguito di tentativi palestinesi di ottenere attraverso l’assemblea generale dell’ONU, le risoluzioni dell’UE, e i vari corpi internazionali giudiziari o di svariato interesse (per esempio l’Unesco o le organizzazioni per i diritti umani) l’introduzione ovunque del concetto che Israele è “un potere di occupazione”, che lo stato dei territori sia quello di “occupazione belligerante” di una zona di proprietà palestinese, che di sicuro quelle terre sono destinate a uno stato palestinese e niente deve disturbare la strada verso questa meta. Ovvero, sparisce il concetto di trattativa. Siamo qui di fronte a un’invenzione politica che non si trova negli accordi, e che è diventata una forma di delegittimazione sempre più forte negli anni, mentre cresceva il terrorismo e le offerte di uno Stato venivano scartate, anche se comprendevano Gerusalemme. Così, stabilire per esempio da parte della UE che i prodotti dei “i territori” per esempio devono essere etichettati nei supermarket europei come tali e non come israeliani, applaude alla strategia che ha fatto del rifiuto della trattativa e quindi del terrorismo il punto di forza di un futuro stato palestinese. Ci si arrende alla paura e si disegna uno Stato che se somigliasse all’attuale Autonomia palestinese o a Gaza, non avrebbe le caratteristiche necessarie a sopravvivere, una Libia in piccolo, destinata alla violenza e al sostegno internazionale. Negli accordi non si fa nemmeno menzione della tanto decantata quanto impossibile “two State solution”. L’invenzione del 2012, naturalmente dell’Onu e delle sue maggioranze automatiche, di create uno “stato di Palestina” osservatore, è un’opzione politica, non una conseguenza dell’accordo. Rabin per esempio non ci pensava affatto. Oslo ancora da prima della firma è ruzzolato giù per una china di delegittimazione di Israele, una negazione del suo diritto all’esistenza: ne nacque la seconda fase della guerra, una valanga insanguinata di attentati, terroristi esplosivi o con kalashnikov o coltelli, un’educazione nazionale all’odio antisemita mentre Edward Said denunciava la “resa” al nemico. La polizia palestinese venne vista non come uno strumento per bloccare il terrore, ma come uno strumento confuso nei fini e di dubbio uso; la pensione vitalizia ai terroristi o alle loro famiglie diventava un comma indiscutibile della politica dell’Autorità palestinese post Oslo. Più avanti sgomberi totali come quello di Gaza del 2005 ne fanno la solo la base del terrorismo missilistico sulle città, travestito da Hamas da guerra religiosa. Era la stessa strategia: da un gesto di pace al rilancio della guerra. 
Due anni dopo la firma, la seconda fase di Oslo promosse lo sgombero tettonico, ignorato dai media, dell’occupazione israeliana da tutte le città, i villaggi, le zone popolate, per cui il 98 per cento dei palestinesi vive da allora in aeree governate dal Consiglio Palestinese: ma la vita civile è stata oppressa da due susseguenti astute dittature corrotte, quella di Arafat e quella di Abu Mazen. Seguendolo da piazze zeppe di palestinesi festanti, a Bethlehem, Ramallah, eccetera… coprii la discesa dal cielo a bordo di un elicottero di Arafat, riammesso nei confini di Israele da Tunisi. Gli israeliani festeggiavano l’avvento di una nuova era, quella in cui Israele non sarebbe più stata criminalizzata. “Ci siamo liberati di un pesante fardello” disse Yossi Beilin capo architetto del processo di Oslo per conto di Shimon Peres e di Rabin “abbiamo evitato così di diventare un obiettivo di tutti quelli che ci vedono come oppressori”. Non era vero: Israele entrò nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani come “occupante” dopo essersene andata e mentre aspettava gli accordi che erano stati promessi. Arafat vide Oslo come un “Cavallo di Troia”, come scrive Efraim Harsh citando il famoso capo palestinese Feisal Husseini. La Giudea e la Samaria e Gaza furono trasformati in nidi di terrorismo che avrebbero “forzato i sionisti a realizzare che è impossibile per loro vivere in Israele” disse Arafat. E nel ’94 prendendo possesso di Gaza: “So che siete contro gli accordi di Oslo, ma ricordatevi sempre quel che vi dico: verrà il giorno in cui vedrete milioni di ebrei fuggire dalla Palestina... gli accordi di Oslo ci aiuteranno a realizzare questo disegno”. Hamas e la Jihad islamica nonostante l’impegno al disarmo, mantennero tutta la potenza di fuoco.
 Il terrorismo suicida fu disegnato contro gli ebrei per i terroristi di tutto il mondo. Arafat non cambiò mai idea rispetto alla sua strategia: “Forzare i sionisti a capire che è impossibile per loro vivere qui”. La sua costruzione di una vasta rete terrorista andò consolidandosi negli anni, in flagrante violazione degli accordi di Oslo. Presto, le strade di Israele dal nord al sud conobbero il bagno di sangue che Arafat preparò e fornì di cinture esplosive e di ideologia: “Cosa c’è di più bello di un bambino martire, shahid, per la causa palestinese”. Gli shahid diventarono gli eroi della mancata pace di Oslo. Ma il consesso internazionale entusiasta della stretta di mano di Rabin e Arafat davanti alla Casa Bianca, ubriacato dal Premio Nobel, non gli ha mai presentato il conto, e al contrario ha preso spunto dagli accordi per costruire una gabbia concettuale di delegittimazione che definisse l’assalto a Israele già iniziato negli anni 70 dall’ONU a partire dalla risoluzione votata a maggioranza “sionismo uguale razzismo”. Intanto avveniva una svolta mentale di Israele rispetto al concetto di sicurezza, Ehud Barak allora capo di Stato Maggiore, mentre perorava una pace col tiranno siriano Hafez Assad, avviava una trasformazione dell’esercito da esercito di popolo a “esercito intelligente” in cui invece della massa pronta alla guerra di terra e alla vittoria, si disegnava una forza di contenimento centrata su armi “intelligenti”, tesa a evitare gli scontri diretti. Fu Barak che mentre nel 2000 veniva lanciata l’Intifada mortale dei duemila morti, da Primo Ministro si accordava per consegnare a Arafat, sostenuto da Clinton, tutto l’West Bank, la Striscia di Gaza, gran parte di Gerusalemme. E lasciava la zona di sicurezza del sud del Libano, prontamente occupata poi dagli hezbollah, abbandonandovi armi e equipaggiamento militare insieme all’esercito del Sud del Libano. Ehud Olmert ha poi seguito la linea delle inutili larghissime concessioni ai palestinesi. Per fortuna l’avidità dei palestinesi, il loro inviolabile scudo ideologico del rifiuto ha sempre respinto tutte le offerte israeliane. Ma Ariel Sharon, sulla scia di Oslo e forse ossessionato dal discredito internazionale che lo considerava un guerrafondaio convinto, lasciò la Striscia di Gaza sradicando 8000 israeliani, fece posto a Hamas e ai suoi missili. I “diritti dei palestinesi” diventarono, dagli Accordi in poi, un comma della mostrificazione di Israele come “avvelenatore delle sorgenti” espressione di Arafat, deposito di criminalità, ingiustizia, violazione di inesistenti accordi internazionali. La nuova israelofobia fondata sulla reinvenzione degli accordi di Oslo fu lo sfondo per cui la terribile seconda Intifada in cui gli ebrei in Israele furono oggetto di una caccia che ne uccise quasi duemila, fece coppia con la mostrificazione internazionale degli assassinati, e non degli assassini. Dalla pace conclamata, nasce una guerra vera, si organizza una sofisticata riedizione dell’antisemitismo teologico che identifica l’ebreo come mostro che non ha diritto di esistere perché viola i diritti umani. Oltre ad aspettarsi pace e fine del terrorismo, da Oslo Israele si aspettava rispetto e credito internazionale: è accaduto l’opposto. La guerra terrorista non solo non ha suscitato orrore, ma è stata segretamente o palesemente giustificata, la delusione di non vedere finalmente concludersi la guerra è stata tutta addebitata secondo l’ideologia corrente alla parte considerata forte, agli “oppressori”, la parte occidentale e quindi coloniale, capitalista, imperialista, filo americana ai tempi delle guerre irachene. Il grande conflitto in via di esplosione col mondo islamico, i suoi attacchi alle capitali europee, l’attacco dell’11 di settembre, Parigi, tutto è stato addebitato allo scontro israelopalestinese. A Durban, che io coprivo da giornalista nel 2001 alla vigilia dell’attacco delle Twin Towers, fu messa in scena sotto il titolo di conferenza dell’ONU sul razzismo una grande conferenza di odio razzista verso Israele: Arafat, insieme a Fidel Castro e Mugabe arringarono una folla che marciò dietro il ritratto di Bin Laden. Gli ebrei presenti alla conferenza fuggivano, letteralmente, di fronte a turbe di giovani delle ONG. Intanto la Corte Internazionale di Giustizia condannava la costruzione del muro che doveva salvare vite umane dalla valanga di terroristi suicidi. Le guerre di Gaza causate dalla pioggia di missili suscitavano soprattutto biasimo verso la difesa di Israele, inchieste come quella dell’ONU gestita dal giudice Goldstone, si facevano imbeccare da testimoni (poi ricusati) che biasimavano la risposta ebraica. La parola “occupation”, occupazione, è diventava fra gli stilemi preferiti dell’Unione Europea che le ha dedicato un numero di risoluzioni, di commissioni d’inchiesta, di condanne infinitamente superiore a qualsiasi altra situazione nel campo dei diritti umani: dalla Siria al Sudan, ai Tibetani. E non c’è confronto con le altre “occupazioni” nel mondo, Cipro, Tibet, Sahara e così via…. Così per Israele l’accusa di apartheid, la più paradossale, è diventata la più usata e ha consentito il diffondersi del BDS. Gli accordi di Oslo più che realizzare una sacrosanta aspirazione alla pace, hanno costituito l’alibi per l’antisemitismo dei diritti umani, quello che in questi anni si è affacciato di nuovo a sinistra e anche a destra bussando colpi sordi e continui. La “special rapporteur per la Palestina”, un’italiana con un passato di odiatrice professionale di Israele, ha accusato nel luglio scorso Israele di “aver trasformato i territori occupati in una prigione a cielo aperto”, ignorando che Oslo pose fine all’occupazione dell’West Bank avviando un processo concordato, e che Gaza non vede l’ombra di un ebreo dal 2005. Ma se glielo chiedete, lei parla in nome degli accordi di Oslo.  

Scrive il professor Dore Gold, citando a sua volta David Makowsky, corrispondente diplomatico del Jerusalem Post, come Oslo fu disegnato in gran fretta da un dialogo fra due accademici (Yair Hirschfeld e Ron Pundik) con nessuna esperienza nel campo della sicurezza o del mondo arabo, incaricati da Rabin semplicemente di costruire come nell’Unione Europea un comune campo di interesse economico. Davvero poco di fronte all’odio teologico e strategico contro il piccolo Stato che aveva già conosciuto tanto terrorismo, tante guerre, tanto rifiuto. Uri Savir, con la sua passione per la pace, venne poi aggiunto al duo, senza nessuna esperienza di trattative: Shimon Peres e il ministro Yossi Beilin, i due referenti politici dell’operazione, vivevano per disegnare una pace storica, e non intendevano deludere le aspettative di Arafat che, infatti fu recuperato dall’esilio. A sua volta Arafat aveva portato Rabin a credere che l’OLP si sarebbe occupato di bloccare i suoi fondamentalisti: questo fu il maggiore di tutti gli equivoci. Ma ormai Arafat era tornato, si era organizzato, aveva ricevuto Gaza e Gerico e quando le trattative per lo status finale furono aperte (tutto pur di non rompere coi palestinesi) anche Gerusalemme est fu messa in questione, cosa che Rabin mai si era sognato di fare pensando a Gerico come al centro dell’amministrazione Palestinese. Così Arafat poté costruire un’inusitata rete terroristica e Gerusalemme diventò il suo terreno di conquista con l’apertura dell’Orient House da parte del ministro Faisal Husseini, mentre il capo delle  sue forze di sicurezza Jibril Rajoub mandava continuamente uomini a Est Gerusalemme. Intanto Arafat ricostruiva l’apparato dell’OLP, e il mondo donava ai palestinesi grandi somme per aiutare la popolazione. In due anni dopo la firma del DOP e la caduta del partito laburista nel 1996, 210 israeliani erano stati uccisi, tre volte il numero medio dei precedenti 26 anni. Nel 96 l’apertura archeologica di un tunnel sotto il Muro del Pianto costò la vita a 17 israeliani e durante gli scontri 80 palestinesi furono uccisi. Segui un breve momento in cui Arafat si acquattò e si concentrò sulla sua strategia, mentre Hamas cresceva. Nel 2000 dopo che Ehud Barak, allora Primo ministro, gli aveva offerto lo Stato a Camp David, Arafat lanciò l’Intifada, la guerra più distruttiva dal 1948, quella in cui si chiarisce che non c’è nessun processo di pace. Quasi 2000 innocenti furono uccisi e 9000 furono i feriti. Comincia qui anche la guerra dei missili Qassam: quando nel 2005 Israele lascerà Gaza, essa verrà punteggiata di una miriade di nidi pronti al lancio, che rafforzeranno la strategia di Hamas come “difensore di Al Aqsa”. Oggi, Abu Mazen ha 86 anni, gli attentati si susseguono senza tregua, le organizzazioni internazionali sono allineate nella fissazione antisraeliana, immaginando che i “territori” siano la risposta. Il rais è riuscito ad essere il degno erede di Arafat. Solo i Paesi Arabi degli accordi di Abramo mostrano di accorgersi che è tempo di pace; forse i successori di Abu Mazen capiranno anch’essi che Israele è in Medio Oriente per restare e essere utile anche a loro.   


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