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Il Giornale Rassegna Stampa
05.07.2023 Jenin, i media contro Israele
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 05 luglio 2023
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 05/07/2023 l'analisi di Fiamma Nirenstein.

PM Netanyahu Appoints Fiamma Nirenstein as Ambassador to Italy | Prime  Minister's Office
Fiamma Nirenstein

Israele è di nuovo oggetto di un severo scrutinio mediatico. Jenin è l’epitome di quello che viene considerato uno degli episodi di scontro violento fra due parti: Israele e i palestinesi. Come in uno stadio di dimensioni mondiali, ci sono due grandi tifoserie, ma nel campo dei media quella che tiene per i palestinesi è certamente la maggiore. La ragione si capisce: le forze israeliane sono meglio armate e quando agiscono i morti palestinesi sono in numero maggiore. Inoltre poiché il governo di Bibi Netanyahu, un leader moderato che oggi siede alla testa di una coalizione in cui siedono anche due ministri di estrema destra, non ha fiducia in un accordo con i palestinesi, questo viene vissuto come un rifiuto israeliano della questione. Ma non si ricorda che Netanyahu, che non ha mai delegittimato l’idea di due stati da lui anzi sostenuta in una famosa conferenza all’Università di Bar Ilan, ha tentato a lungo di formare la sua coalizione con Benny Gantz, ex ministro della difesa: il rifiuto è stato netto, e questo lo ha spinto a formare una coalizione in cui i rapporti, lo si vede nelle cronache, non sono facile.

Once a Developing City, Jenin Has Turned Into a Terror Hotbed -  Palestinians - Haaretz.com

Ma per esempio, Bibi è durissimo con gli episodi di violazione della legge da parte dei settler che dopo il massacro di quattro israeliani in un ristorante sulla strada hanno compiuto gesti di violenza a Huwara, un villaggio arabo, mentre i due ministri di destra Smotrich e Ben Gvir erano indulgenti. Questo, tuttavia, non c’entra con la lotta al terrorismo: qui, anche la sinistra è allineata con l’operazione contro i terroristi di Jenin, a partire da Yair Lapid. Per tutti è pura autodifesa, una scelta non politica, ma pratica e indispensabile. Anche in Israele come in ogni democrazia in primis devi salvare la vita dei tuoi cittadini. Dall’inizio dell’anno la crescita esponenziale degli attacchi terroristici contro i cittadini israeliani, 28 morti che rapportati ai numeri italiani corrispondono a 168 persone circa, ha fatto sì che ogni volte si cercasse di fermare la frana, senza risultati. 200 attentati di cui 50 a fuoco in sei mesi, tutti dall’West Bank con centro a Jenin, e non da Gaza, hanno imposto l’operazione. Fra i palestinesi è cambiato il ritmo e il sistema: un’escalation di armamenti, di sprint ideologico, di gruppi vecchi e nuovi ha invaso il terreno coprendolo di vittime da Tel Aviv all’West bank. E Israele ha agito contro il terrore con l’esercito. Ma non è uno scontro fra due forze contrapposte: si capisce dal video dell’attacco di ieri mattina a Tel Aviv, i ragazzi seduti tranquilli in un bar del centro investiti da una macchina e pugnalati; o nelle settimane scorse, due fratellini che aspettano l’autobus fucilati, come una madre con le due figlie in auto. L’idea strategia del terrorismo attuale, supportato come non mai dall’Iran e spostato da Gaza all’West bank, è che la sorpresa da ogni parte prosciugherà la vita d’Israele nella paura e nel dolore. Il consenso è grande: il 71 per cento dei Palestinesi supporta i gruppi terroristici, il 70 per cento è contro l’idea di due stati, il 52 contro il 21 preferisce la resistenza armata ai negoziati. L’esercito israeliano dunque non aveva altra scelta per proteggere la sua gente che entrare a Jenin, epicentro del nuovo terrore, da cui, novità strategica, sono partiti anche missili, a arrestare terroristi asserragliati in una fortezza.

L’ esercito sa che i soldati possono compiere errori e uccidere civili, quindi ha programmato a fondo: non è un caso che fino a ieri abbia ucciso 9 persone tutte armate. La strategia dei gruppi di Jenin, Jihad Islamica, Hamas, gruppetti autonomi, è divenuta nel frattempo molto più internazionale, l’Iran incita e arma da quando Qasem Suleimani e poi l’ayatollah Khamenei decisero che i palestinesi entrassero nel fronte formato da Libano e Siria. L’esercito si è preparato a fondo per quella fortezza densa di armi, cunicoli, sotterranei, esplosivi per ogni dove. Entrando, ha distrutto, rovinato, fatto saltare per aria mura che celavano depositi di esplosivo. Difficile la domanda su cosa accadrà domani: forse se Abu Mazen si deciderà a cedere lo scettro e la politica il cui fulcro sono gli stipendi ai terroristi e l’incitamento mentre peraltro permangono alcuni accordi di sicurezza dai tempi degli accordi di Oslo, qualche porta si potrebbe riaprire. Ma il rais sembra preferire la strada legata agli stereotipi che hanno sempre scelto il “no” come risposta.

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