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Il Foglio Rassegna Stampa
08.01.2024 La pace che vuole Israele e la guerra che deve combattere
Commento di Yasha Reibman

Testata: Il Foglio
Data: 08 gennaio 2024
Pagina: 5
Autore: Yasha Reibman
Titolo: «La pace che vuole Israele e la guerra che deve combattere»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/01/2024, a pag. 5 l'analisi di Yasha Reibman dal titolo "La pace che vuole Israele e la guerra che deve combattere".

Yasha Reibman
Il filosofo ebreo Yeshayahu Leibowitz
Il filosofo Yeshayahu Leibowitz

I sentimenti di orrore per la guerra tra Israele e Hamas e per le vittime civili innocenti che, nonostante le precauzioni da parte israeliana, comunque avvengono, non sono un monopolio di chi chiede un cessate il fuoco. Appartengono anche a chi – in primis in Israele – ritiene questa guerra terribile, ma inevitabile per poter avere in futuro una pace e che la precondizione sia la sconfitta di Hamas e la fine dell’educazione all’odio contro gli israeliani inculcato nei bambini palestinesi a partire dalle scuole elementari. Come ha scritto Emmanuel Navon, nel recente volume “La stella e lo scettro - Storia della politica estera di Israele”, edizione Giubilei Regnani, la psiche ebraica è stata plasmata dalla lettura della Torah e dai commenti che nei millenni si sono sedimentati.

La guerra di Giosuè, che obbedì a un preciso comandamento divino, portò alla conquista della terra di Israele. Eppure, ed è sorprendente, questa non venne mai celebrata con una festa ad hoc, osservava il filosofo Yeshayahu Leibowitz. Nemmeno la conquista di Gerusalemme da parte di re Davide ottenne un giorno festivo nel calendario ebraico, sottolinea Massimo Giuliani in “Gerusalemme e Gaza - Guerra e pace nella terra di Abramo”, edizione Scholé. La festività che più si avvicina a un evento bellico è Hannukka, che ricorda un particolare miracolo successivo alla liberazione del Tempio profanato dagli ellenisti e la sua conseguente (re)inaugurazione. Il miracolo che si festeggia non è la vittoria dei pochi (i maccabei) contro i molti (gli ellenisti), ma il fatto che una boccetta di olio puro – indispensabile per accendere il candelabro del Tempio – durò otto giorni, il tempo necessario a produrre nuovo olio. La guerra, sottolinea ancora Leibowitz, può avere un valore storico, umano e strategico, ma non possiede in sé nessun valore o significato religioso.

Quando finalmente Sinwar, il leader di Hamas, sarà eliminato, sarà lecito stappare le bottiglie di champagne (kosher o meno, ora il punto non è questo) e festeggiare? Sebbene il sentimento sia comprensibile dopo quanto successo il 7 ottobre (e sicuramente qualcuno si lascerà andare in tal senso), anche di questo si sta discutendo in Israele. Nei proverbi, attribuiti alla saggezza di Re Salomone, è scritto “non gioire per la caduta del tuo nemico”. E ogni anno, in occasione della Cena pasquale, vi è la tradizione di togliere delle gocce dal bicchiere di vino in occasione della lettura delle dieci paghe subite dagli egizi affinché gli ebrei potessero essere liberi. Sempre nella stessa cena si usa ricordare l’interpretazione del Maharal di Praga (il rabbino del XVI-XVII secolo, famoso per il Golem). Quando il mare si divise e gli ebrei passarono sul fondo asciutto, l’esercito del faraone si lanciò all’inseguimento, ma il mare si richiuse e travolse i carri e i cavalieri. I canti di giubilo degli angeli furono fermati da Dio perché stavano morendo delle persone. “Il Signore benedetto non gioisce alla caduta dei malvagi” è l’insegnamento di rabbi Yochanan riportato nel Talmud babilonese. Il festeggiamento nella Pasqua si concentra infatti sulla libertà del popolo ebraico, non si festeggia la sconfitta degli egizi. Al contrario, il giorno prima della Pasqua è stabilito un giorno di digiuno in ricordo e rispetto per la morte dei primogeniti egizi (l’ultima e terribile piaga).

Si potrebbe continuare ancora a lungo nel sottolineare l’avversione per la guerra e il rispetto per la vita umana per chiunque, anche per il nemico. Si potrebbe dedicare tantissimo spazio nel ricordare quanto la pace sia considerata il bene superiore, al punto che la parola ebraica Shalom (pace) è uno dei nomi divini e che quotidianamente, più volte al giorno, in occasione delle preghiere si augura la benedizione della pace. Tutto questo arriva ai giorni nostri, tuttora gli israeliani – costretti con un fucile in spalla a combattere una guerra che non hanno voluto, ma che devono vincere – ascoltano e cantano “Shir la shalom” la “canzone per la pace”, nella quale si dice “non dite ‘verrà un giorno’, ma portatelo qui ora perché non è un sogno”.

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