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Il Foglio Rassegna Stampa
13.04.2017 Il fallimento postumo di Camp David: le colpe degli arabi
Analisi di Antonio Donno

Testata: Il Foglio
Data: 13 aprile 2017
Pagina: 2
Autore: Antonio Donno
Titolo: «Le colpe arabe nel fallimento postumo degli accordi di Camp David»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2017, a pag. 2, con il titolo "Le colpe arabe nel fallimento postumo degli accordi di Camp David", l'analisi di Antonio Donno.

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Antonio Donno

Camp David: Peacemaking and Politics, di William B. Quandt (Brookings Institution Press) è ormai un classico della storiografia sul medio oriente e sul conflitto arabo-israeliano. Perciò, l’iniziativa di ripubblicare quest’opera a distanza di tanti anni (apparve nel 1986) è un’occasione per riconsiderare le occasioni mancate – è proprio il caso di dirlo – non per colpa di coloro che siglarono lo storico accordo, ma di quella parte del mondo palestinese, e arabo in generale, che non ha mai voluto riconoscere l’esistenza dello stato di Israele e, con la successiva uccisione di Sadat, ha voluto cancellare il significato stesso di quel momento fondamentale della storia mediorientale. E questo vale ancor più oggi, di fronte all’ondata di antisemitismo che accusa Israele di essere la causa della crisi mediorientale e della situazione dei palestinesi nella West Bank.

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Si dimentica, o si vuol dimenticare, che quell’accordo, benché non riguardasse direttamente il problema palestinese, era tuttavia un passo decisivo verso una possibile pacificazione generale della regione, da cui nel tempo anche quella questione avrebbe potuto trarre giovamento. Il problema è sempre lo stesso: coloro che boicottarono quell’accordo, come in seguito altri dello stesso tipo, non coltivavano alcun interesse a dare vita a uno stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele. Il rifiuto di Arafat nel 2000 resta una pietra miliare, una pietra di paragone del rifiuto arabo della presenza stessa degli ebrei nella regione. Tutto il resto è chiacchiera. Ma torniamo al libro di Quandt. William Quandt faceva parte dello staff del White House National Security Council e partecipò direttamente alle trattative. E’, quindi, un testimone fondamentale di quel processo. Egli analizza tutte le fasi del negoziato, ponendo particolare attenzione al ruolo del presidente americano, Jimmy Carter.

Infatti, al di là dei problemi che videro Sadat e Begin impegnati nella fase negoziale, che Quandt esamina con grande aderenza ai fatti, un aspetto centrale della sua narrazione riguarda proprio la funzione del presidente americano nelle sue possibilità di indirizzare lo svolgimento delle trattative e, nello stesso tempo, dei suoi limiti. Quest’ultimo aspetto è centrale. Quandt, infatti, non nasconde che Carter “[…] sovrastimò il ruolo che l’Egitto avrebbe potuto giocare nel creare i presupposti per una sistemazione negoziata della questione palestinese”. La ragione è semplice: né la Giordania né i capi palestinesi (né gli altri paesi arabi) desideravano una pace che riconoscesse il diritto di Israele a esistere e la nascita di uno stato palestinese accanto a Israele. E – possia - mo aggiungere – neppure Sadat intendeva sprecare soverchie energie su questo tema, desiderando recuperare il Sinai e concludere una pace stabile con Israele, che permettesse al suo paese di impiegare le proprie risorse nello sviluppo dell’econo - mia, non in una guerra continua, e frustrante, contro Israele, con uno spreco di energie umane e materiali incalcolabile.

Così, scrive Quandt, “l’approccio alternativo sarebbe stato semplicemente un gioco d’azzardo”. In definitiva, la questione palestinese, conclude Quandt, fu tralasciata – con grande delusione da parte di Carter – perché intrattabile con i diretti interessati e, di conseguenza, perché Sadat e Begin avevano tutto l’interesse di concludere positivamente il negoziato tra i loro due paesi. Sadat pagò con la vita il riconoscimento di Israele, e Israele, da parte sua, rimise in discussione, con l’invasione del Libano – sostiene Quandt – un processo di pacificazione che avrebbe potuto portare anche alla sistemazione della questione palestinese. Considerazione, questa, opinabile, perché l’invasione del Libano fu proprio la conseguenza del rifiuto da parte della dirigenza palestinese di accettare le conclusioni derivate dalla pace israelo-egiziana e dell’inasprimento delle operazioni terroristiche provenienti dal sud del Libano, una regione di confine con Israele in cui l’autorità del governo libanese era del tutto svanita ed era divenuta la base delle operazioni terroristiche dell’Olp contro lo stato ebraico. Quandt mette in risalto il ruolo di Carter, che indubbiamente deve essere riconosciuto.

Dopo la guerra del 1973, la pace tra Egitto e Israele era possibile, ma non inevitabile. Fu la mediazione americana a dare quell’indirizzo unitario al negoziato che altrimenti sarebbe fallito, perché le due parti avevano approcci fondamentalmente differenti ai problemi sul tappeto. La pace del 1978, scrive Quandt, dimostra il ruolo fondamentale degli Stati Uniti in qualità di mediatori nelle dispute internazionali, anche se l’autore non nasconde le difficoltà che un presidente americano incontra in queste occasioni a causa dei margini temporali ristretti legati alla durata della presidenza. Ma la democrazia richiede tutto questo. “Un giudizio su Camp David – conclude Quandt – deve iniziare dalla considerazione su ciò che Sadat e Begin, dati i loro punti di vista e i loro condizionamenti politici, si sono persuasi ad accettare. E, dal punto di vista americano, ci si deve chiedere quanto quei risultati siano serviti agli interessi americani”.

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