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La Stampa Rassegna Stampa
10.11.2017 Il doppio registro degli arabi palestinesi: aizzano il fanatismo in arabo, concilianti davanti ai media occidentali
Francesca Paci intervista Riad al Malki, ministro degli Esteri arabo palestinese

Testata: La Stampa
Data: 10 novembre 2017
Pagina: 13
Autore: Francesca Paci
Titolo: «'Crediamo in Trump per arrivare alla pace tra Israele e Palestina'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/11/2017, a pag.13, l'intervista a Riad al Malki, ministro degli Esteri arabo palestinese, di Francesca Paci, dal titolo 'Crediamo in Trump per arrivare alla pace tra Israele e Palestina'.

Riad al Malki, ministro degli Esteri arabo palestinese, si presenta come desideroso di pace con Israele sulle colonne della Stampa, ma quando parla in arabo dice ben altro. E' la consolidata tecnica - utilizzata anche da Tariq Ramadan - di utilizzare due registri: uno interno, per aizzare il fanatismo e fomentare odio e attentati, e uno esterno, rivolto alla stampa occidentale, conciliante per confermare lo stereotipo falso degli arabi palestinesi come vittime inermi e innocenti.

Francesca Paci fa molte domande sui rapporti con i regimi sciiti e sunniti in Medio Oriente, ma non chiede nulla su Israele, paese che conosce bene essendo stata corrispondente della Stampa. Una domanda poteva essere perché gli arabi palestinesi non riconoscono Israele.

Ecco l'articolo:

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Francesca Paci

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Riad al Malki

Il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki, in carica da dieci anni, atterra a Roma per il summit intergovernativo con la Farnesina dopo un tour de force regionale insieme al presidente Abu Mazen. In Egitto ha ricevuto la benedizione alla riconciliazione nazionale, a Riad si è assicurato il rilancio del piano saudita per la pace con Israele, in Italia ha messo nero su bianco la collaborazione bilaterale sulla sicurezza, gli investimenti e la tutela del patrimonio culturale palestinese a cui al momento lavorano decine di gruppi archeologici italiani. La Stampa lo incontra al margine dell’incontro pubblico organizzato dall’Istituto Affari Internazionali.

Ha visto re Salman durante le ore forse più critiche dell’Arabia Saudita. Com’è andata?
«Molto bene per noi. So che c’erano grandi aspettative regionali perché siamo arrivati a Riad in contemporanea con i rappresentanti di altri Paesi, Libano e Yemen. In realtà l’Arabia Saudita ha voluto ribadire il suo impegno a fianco della legittima Autorità Palestinese e ci ha garantito che non normalizzerà i rapporti con Israele prima della nascita di uno Stato Palestinese indipendente sui confini del 1967 e con capitale Gerusalemme Est».

Riad vi ha dato garanzie sul rilancio dell’Arab Peace Initiative, il piano saudita adottato dalla Lega Araba nel 2002?
«Ci siamo confrontati a lungo e su molte cose: la riconciliazione palestinese e gli insediamenti israeliani. Abbiamo ricevuto la garanzia che Riad lavorerà con l’amministrazione Usa affinché la soluzione della questione israelo-palestinese sia la precondizione per tutto il resto. Ci è stato assicurato anche un sostegno finanziario oltre che politico».

Come legge il nuovo attivismo dell’amministrazione americana in Medioriente?
«Sin dal suo ingresso alla Casa Bianca Trump ha mostrato impegno e entusiasmo per il rilancio dei negoziati. Ha incaricato alcuni suoi fidatissimi uomini di lavorare sul terreno, sembra intenzionato a fare presto. A settembre a New York ha parlato di due o tre mesi per creare le condizioni e un anno per iniziare a produrre qualcosa. L’ultima nostra delusione risale al 2014, quando Kerry cercò di portare a casa il risultato in extremis ma Netanyahu abbandonò il tavolo e non volle rilasciare i prigionieri politici palestinesi. Israele sembra non rendersi conto che il tempo sta finendo, che siamo come due gemelli siamesi e che lo Stato d’Israele non resisterà ancora a lungo senza la nascita di quello palestinese».

Eppure si è detto ottimista. Perché oggi dovrebbe essere diverso rispetto al 2014?
«Durante gli anni di Obama Netanyahu ha fatto il bello e il cattivo tempo, si è divertito. Obama è stato un leader esitante e Netanyahu, contando sull’appoggio del Congresso, lo metteva continuamente in difficoltà. Con Trump è diverso, il nuovo presidente ha il Congresso dalla sua e asseconda Netanyahu ma gli ha fatto anche capire che c’è un limite. Non so che tipo di road map abbia in mente Trump ma ce l’ha, e Netanyahu, a parte provare a dividerne lo staff, non potrà sfidare più di tanto la sua imprevedibilità».

Non ha paura che la guerra sotterranea tra islam sunnita e sciita o anche la crisi in corso con il Qatar finiscano per mettere da parte il processo di pace?

«Non vedo alcuna guerra tra sunniti e sciiti. Nella regione se ne combatte invece una contro il terrorismo e tutte le forze democratiche, sunnite e sciite, sono in campo per vincerla».

Che ruolo gioca l’Egitto, dov’è stato prima di andare a Riad, in questa nuova stagione negoziale?
«I due viaggi non sono collegati. L’Egitto è un partner importante per la pace ma non è l’unico. Anche l’Italia è benvenuta. Il conflitto israelo-plaestinese tocca tutti. Il presidente Sisi sembra aver realizzato che si tratta del nodo chiave per la stabilità della regione e che per scioglierlo bisogna lavorare con noi».

Nel quadro del nuovo revival sciita Teheran è ancora attivo a Gaza?
«L’Iran è stato molto presente fino alla rottura di Hamas con Damasco nel 2011, ora sta tornando. Si fa garante del riavvicinamento tra Hamas e Hezbollah. Ma non funzionerà, siamo impegnati nel piano di riconciliazione nazionale».

Perché ritenete che ci siano le condizioni per il ritorno dell’Autorità Palestinese a Gaza?
«Questa decisione chiude il pessimo capitolo apertosi undici anni fa. Quella divisione fu un errore e l’abbiamo pagata cara. Hamas aveva priorità diverse dalle nostre, essendo il ramo locale della Fratellanza Musulmana ragionava in termini di Stato islamico più che di Stato palestinese. Adesso l’Egitto è sceso in campo e sono bastati due giorni per metterci d’accordo. Speriamo che regga. Sappiamo che alcuni a Gaza resisteranno ma stavolta andremo fino in fondo. Per questo è fondamentale la sicurezza, dobbiamo controllare Gaza al cento per cento perché non vogliamo ritrovarci come il Libano, quando per una scaramuccia Hezbollah occupò Beirut».

Da due anni Israele denuncia la ripresa degli attacchi terroristici contro i civili. Siete in grado di controllare i vostri giovani?
«A Israele diciamo che rispondiamo del territorio che controlliamo, non siamo responsabili degli attacchi compiuti dove sono in carica le forze israeliane e non quelle dell’Autorità Palestinese».

Anche la tappa romana è molto importante, si tratta del primo incontro inter-governativo tra Italia e Autorità Palestinese. Qual è il bilancio?
«L’Italia è un partner importante, ma non è l’unico. I Carabinieri hanno fatto un grande lavoro di training sulla nostra polizia, hanno formato circa 1500 agenti in otto anni e continueranno. Ma abbiamo spiegato a Israele che non vogliamo un esercito, vogliamo un Paese demilitarizzato. Anche i rapporti economici con l’Italia sono buoni e ci aspettiamo molto dalla collaborazione culturale, abbiamo tutelato il nostro patrimonio artistico come garanzia della nostra identità, chiediamo all’Italia di continuare a sostenerci».

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direttore@lastampa.it

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