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La Stampa Rassegna Stampa
19.09.2017 Libia e Marocco: lo Stato islamico nel Mediterraneo meridionale
Cronaca di Francesco Semprini, Karima Moual intervista Abdelhak Khiame, direttore dell'Fbi del Marocco

Testata: La Stampa
Data: 19 settembre 2017
Pagina: 12
Autore: Francesco Semprini - Karima Moual
Titolo: «Così Al Baghdadi usa la Libia per gli attacchi all’Occidente - 'In Marocco sgominate 47 cellule. Dal Sahel la minaccia per l’Europa'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/09/2017, a pag.12 con il titolo "Così Al Baghdadi usa la Libia per gli attacchi all’Occidente", la cronaca di Francesco Semprini, con il titolo 'In Marocco sgominate 47 cellule. Dal Sahel la minaccia per l’Europa', l'intervista di Karima Moual a Abdelhak Khiame, direttore dell'Fbi del Marocco.

Ecco gli articoli:

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Terroristi islamici in Libia

 

Francesco Semprini: "Così Al Baghdadi usa la Libia per gli attacchi all’Occidente"

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Francesco Semprini

Riposizionatevi in Libia, attaccate l’Europa. Questo il comando che Abu Bakr al-Baghdadi ha impartito ai suoi jihadisti dinanzi alle sconfitte sul campo inferte dalle forze anti-Isis tra Siria e Iraq. Il Paese maghrebino, dove le bandiere nere hanno prosperato per anni instaurando a Sirte la terza capitale del califfato (dopo Raqqa e Mosul), è il «paradiso» degli jihadisti in fuga, riferiscono rapporti di intelligence e funzionari per la Sicurezza europei.

A renderlo tale sono l’inaccessibilità dell’entroterra, la presenza di importanti depositi di armi trafugate dagli arsenali del regime gheddafiano, e l’instabilità politica. «E il fatto che sia la principale porta di accesso all’Europa», spiega al Wall Street Journal Abu Baara al-Ansari, disertore un tempo impiegato nell’«ufficio visitatori» di Raqqa, il bureau che spiava chiunque si recasse nei «territori neri».
Il Vecchio continente è del resto il nuovo terreno di scontro del califfo (o di chi ne fa le veci), impegnato nella guerra «asimmetrica» che si combatte direttamente nella «terra degli infedeli». L’ingresso in Libia dei transfughi del califfato avviene attraverso il «passaggio sudanese», dove gli jihadisti arrivano con voli da Istanbul. L’intelligence europea sta monitorando micro aggregazioni sempre più frequenti di reduci dell’Isis, gruppi di 50 terroristi composti anche dai reduci di Sirte. Sono quelli scappati dall’offensiva condotta da al-Bunyan al-Marsus, le forze di Misurata che hanno riconquistato la città natale di Gheddafi pagando costi elevati in termini di caduti. Alcuni hanno trovato rifugio a Bani Walid, nell’entroterra a metà strada tra Sirte e Tripoli, altri si sono diretti a Ghat vicino al confine algerino per poi concentrarsi nell’oasi di Ubari. È una sorta di porto franco dove i miliziani si muovono liberamente a ridosso del più grande compound petrolifero della Libia, organizzano periodicamente riunioni. E dove conducono le attività di finanziamento: sequestri di camion, contrabbando, estorsione e taglieggiamenti degli stessi trafficanti di esseri umani.

Secondo Africom, il comando militare Usa che lo scorso gennaio ha condotto raid su campi Isis nei pressi di Bani Walid, gli jihadisti in Libia sono almeno 500. «Sono di più ma ovviamente incensibili», spiegano da Misurata alcuni leader di al-Marsus che denunciano come la poca attenzione di Tripoli nei loro confronti indebolisca le difese anti-Isis sulla costa. Secondo le disposizioni di Al-Baghdadi in Libia occorre rimanere in attesa di far rotta verso l’Europa. Le rotte utilizzate passano sempre attraverso la Turchia: «A maggio elementi di gruppi affini al califfo sono stati distaccati da Bengasi a Istanbul, quindi ad Atene, in attesa di ricevere ordini», spiega al Wsj un altro defezionista. Già due anni fa l’Isis voleva utilizzare la Libia come porta di accesso per l’Europa e Salman Abedi, l’autore dell’attentato di Manchester, sembra fosse appena tornato dalla Libia, dopo un periodo di addestramento con esplosivi. Con le stesse tecniche insegnate nel «Weapons lab» di Raqqa, la scuola per foreign fighter dove tra i frequentatori più operosi spiccavano i libici.

Karima Moual : 'In Marocco sgominate 47 cellule. Dal Sahel la minaccia per l’Europa'

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Karima Moual

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Abdelhak Khiame, direttore dell'Fbi del Marocco

Nella cittadina di Salè, a pochi chilometri dalla capitale marocchina, Rabat, incontriamo Abdelhak Khiame, il direttore del «Bureau central des investigations judiciaires» (Bcij), l’Fbi marocchino. La struttura - nata nel 2015 e composta da poliziotti d’élite, molti formatisi tra Stati Uniti e Svizzera – è un punto fermo nell’antiterrorismo. Khiame, 55 anni è un volto familiare, e un «eroe» per i marocchini perché riesce ad anticipare la minaccia jihadista.

Direttore, dall’apertura del vostro ufficio, quante cellule jihadiste siete riusciti a sgominare?
«Dal marzo 2015 ad oggi 47: di cui 42 legate allo Stato islamico e cinque legate alle vecchie organizzazioni salafite come “Al Faye wa al Istihlal”. Le persone arrestate invece sono state 698. Ma il nostro ruolo, come antiterrorismo, è frutto di un lavoro che ha inizio nel 2002. Siamo partiti in anticipo, quando il terrorismo aveva legami in Afghanistan. Facendo il conto da quell’anno il numero delle cellule sale a 172, mentre siamo riusciti a smantellare 350 operazioni terroristiche».

Riguardano zone particolari del Paese?
«No, come hanno dimostrato gli arresti nelle diverse regioni del Regno. Certo ci sono stati cambiamenti nel corso degli anni. Agli inizi, con l’ascesa dell’Isis, le cellule affiliate provenivano dal Sud del Marocco: Agadir, Laayoune, Tantan, con legami con i separatisti dei Polisario. Il Nord invece era caratterizzato dalla presenza dei reclutatori. Solo dopo, la minaccia jihadista si è spostata a macchia d’olio».

C’è un legame forte tra la crescente minaccia interna e quanto è avvenuto in Siria e Iraq?
«Certamente sì. Sono 1.664 i marocchini partiti per Iraq e Siria».

È una presenza tutta al maschile o ci sono anche donne?
«Ci sono donne sia partite per queste zone, e sono 286, che all’interno delle cellule jihadiste marocchine. Una cellula era formata solo da donne, 14, tutte giovanissime. Ma ci sono anche 375 minori partiti al seguito del Califfo; 20 gli stranieri arrestati. Mentre vi sono 17 con doppia cittadinanza. La minaccia è globale e stratificata».

Dall’Italia in questi due anni sono stati espulsi più di 150 marocchini sospettati di terrorismo. Perché non sono nella vostra lista?
«Perché al loro arrivo, e dopo le nostre indagini, l’accusa è risultata non del tutto sostenuta da prove concrete. Insomma, tutti noi abbiamo l’interesse a combattere il terrorismo ovunque si annidi ma bisogna stare attenti a non cadere in un’altra trappola che confonde veri terroristi con persone che hanno stili di vita magari un po’ lontani dal proprio, ma rimangono comunque innocenti. L’individuazione della minaccia terroristica deve essere scrupolosa e l’espulsione indiscriminata, e non sostenuta da prove concrete, non è un bene. In sintesi, se questi 150 presunti terroristi provenienti dall’Italia non sono passati qui nel mio ufficio significa che non rappresentavano una reale minaccia».

I jihadisti che siete riusciti a fermare sono collegati al Sahel, all’Africa Occidentale o all’Algeria?
«Bisogna intanto sottolineare che una volta ucciso Bin Laden, Al Qaeda non è scomparsa con lui ed è rimasta nel Sud dell’Algeria con l’Aqmi. Il Sahel rappresenta un grande pericolo anche per l’Europa dal momento in cui è lasciato a se stesso. I jihadisti in Marocco non hanno un solo legame territoriale. Si dividono tra le maggiori sigle, ma ci sono anche gruppi ambigui come “Al Adl Wal Ihsan”, da noi illegale e che teniamo d’occhio per alcune loro attività. Molti jihadisti dell’Isis sono passati prima anche per questo movimento. È preoccupante però il loro attivismo ed espansione in Europa, dalla Francia al Belgio ma anche in Italia».

Perché tante operazioni congiunte tra voi e gli spagnoli?
«C’è vicinanza geografica, poi una comunità marocchina imponente tra Melilla, Ceuta e Spagna. L’attentato a Casablanca del 2003 segnò per noi una consapevolezza concreta che la questione doveva essere affrontata in maniera diversa, con una strategia globale e multidimensionale. Si comprese che riguardava la radicalizzazione delle persone. Rafforzammo la macchina della sicurezza, con la creazione di nuovi reparti, ma furono varate anche leggi per la promozione di una narrativa ed educazione all’islam malikita, pacifico e moderato. La Spagna con l’attentato del 2004 iniziò a collaborare con noi perché capì anche lei che il nuovo terrorismo era diverso».

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