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La Repubblica Rassegna Stampa
29.10.2023 Viaggio in Israele nella sua ora più difficile - parte 2
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 29 ottobre 2023
Pagina: 47
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Viaggio in Israele nella sua ora più difficile»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/10/2023, a pag. 1-48, con il titolo “Viaggio in Israele nella sua ora più difficile” l'analisi del direttore Maurizio Molinari (seconda parte).

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

In attesa delle operazioni di terra, possono esserci pochi dubbi che le conseguenze della guerra con Hamas stanno già ridefinendo la posizione di Israele fra Washington e Mosca. Se dall’inizio della guerra in Ucraina il governo Netanyahu aveva tentato di mantenere un difficile equilibrio fra Kiev e Mosca – inviando solo aiuti umanitari a Volodymir Zelensky e senza applicare le sanzioni al Cremlino – ora la scelta di Putin di schierarsi con Hamas è inequivocabile, polverizzando tutto il resto. «Nell’ultimo anno vi sono stati ben 26 incontri pubblici fra esponenti del governo russo e di Hamas» osserva Yuli Edelstein – e dall’indomani del 7 ottobre Putin non ha mai condannato il pogrom contro di noi». Il motivo è il legame a doppio filo fra Mosca e Teheran. «L’Iran è cruciale per Putin a causa dell’invio di armi, a cominciare dai droni, che garantisce all’esercito russo in Ucraina – osserva Edelstein – e questa è una priorità strategica che fa passare in secondo piano il legame con Israele che il leader del Cremlino aveva spesso citato in pubblico, definendoci ad esempio l’unico Stato russofono fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica». La guerra in Medio Oriente giova d’altra parte tatticamente a Putin per distrarre l’America dalla campagna ucraina e anche per fomentare divisioni interne nei Paesi dell’Occidente. «Questo non significa che la Russia sia stata al corrente dei piani di Hamas contro di noi, ma le conseguenze sono inequivocabili – termina Edelstein, già fra i leader del movimento dei Refusnik, gli ebrei sovietici che si battevano per la libertà di emigrazione in Israele –: Putin ha fatto una netta scelta di campo a favore dell’Iran». Da qui l’attenzione di Gerusalemme per la volontà di Casa Bianca ed Eliseo di creare una «coalizione contro Hamas come già fatto contro Isis». Non perché Israele abbia bisogno di aiuti militari sul terreno ma in quanto potrebbe generare un sostegno politico capace di sostenere lo Stato ebraico sulla scena internazionale una volta iniziato l’intervento. La sorte degli israeliani deportati da Hamas nella Striscia di Gaza si sovrappone all’incombere dell’operazione di terra. Per comprenderne il perché bisogna ascoltare David Meidan, l’ex alto funzionario del Mossad, nato in Egitto ed immigrato in Israele quando aveva un anno di età, che il 18 ottobre 2011 riuscì ad ottenere la liberazione del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas dopo cinque anni di difficili trattative, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti e terroristi dalle carceri israeliane. «Molti degli ostaggi presi da Hamas hanno una doppia cittadinanza e vi sono poi numerosi casi umanitari, c’è spazio per negoziare il rilascio di entrambi i gruppi in tempi stretti», spiega Meidan, sottolineando come l’amministrazione Biden sta esercitando una pressione molto forte sul Qatar affinché spinga i fondamentalisti della Striscia a liberarli. I motivi della trattativa sono molteplici e sotterranei. Da un lato c’è Doha, perché i qatarini hanno un problema di credibilità da riscattare in quanto sono stati loro negli ultimi dieci anni ad assicurare ad Occidente, Israele e mondo arabo che era possibile venire a patti con Hamas. Se il premier qatarino, Mohammed al-Thani, è impegnato in prima persona a ottenere il rilascio di ostaggi stranieri e umanitari è perché è ben consapevole della necessità di impedire che Doha ridiventi una nazione paria, sospettata di complicità con il terrorismo islamico, come già avvenuto fra il 2017 ed il 2021 quando fu Riad a guidare il Consiglio di Cooperazione del Golfo e a isolarla, imponendole dure sanzioni a causa del legame con i Fratelli musulmani. Ma c’è dell’altro perché, aggiunge Meidan, «anche Hamas ha un problema da risolvere» dato dal fatto che «più Paesi arabi, dall’Egitto al Qatar, hanno visto nella brutale violenza contro i civili israeliani un comportamento che insulta i principi dell’Islam». È proprio la necessità per Hamas di far fronte a queste critiche – aspre ma mai pubbliche – ad aver spinto Khaled Meshaal, ex capo del Politburo, a liquidare in tv i rapimenti come eseguiti da “civili di Gaza”, fino alla liberazione dei primi quattro ostaggi – prima due americane, poi due anziane israeliane – al fine di provare un presunto atteggiamento “umanitario” dei jihadisti. La trattativa è però una corsa contro il tempo, perché l’inizio dell’intervento di terra incombe, e Meidan ritiene che «per avere successo deve includere non solo gli stranieri e gli israeliani con doppio passaporto ma anche tutti gli ostaggi umanitari», perché «fare una selezione escludendo i civili israeliani» riproporrebbe da parte di Hamas comportamenti analoghi a quelli delle selezioni eseguite dai nazisti «risultando inaccettabile alla nostra opinione pubblica». Quando Meidan dice “casi umanitari” intende “anziani, donne e bambini” perché «vi sono bambini molto piccoli e anche madri con figli», ovvero persone che non sarebbero in grado di sopravvivere in caso di guerra aperta. Golda Meir o Chamberlain? A Tel Aviv la piazza davanti al museo di Arte moderna è lo specchio della sovrapposizione fra le due ferite aperte di Israele. A prima vista ciò che domina la piazza è il lungo tavolo apparecchiato con la “challa” - il pane del sabato - con 222 posti, quanti sono i rapiti da Hamas. Le famiglie degli ostaggi vengono sulla piazza, sostano in un luogo a pochi metri di distanza e raccontano il loro dramma. E sulla stessa piazza i nomi dei rapiti sono stati aggiunti al monumento che ricorda la guerra del Kippur del 1973 - anche allora un attacco a sorpresa - raffigurando l’episodio biblico del Sacrificio di Isacco. Ma a ben vedere sul selciato biancastro c’è dell’altro. Scritte e volantini che raccontano le 40 settimane di protesta contro il premier Netanyahu e la sua riforma della Giustizia che hanno mobilitato, ogni sabato sera, decine di migliaia di persone. Sulla parete esterna del museo un grande poster ricorda la Dichiarazione di indipendenza di Israele, letta da David Ben Gurion, proprio per sottolineare quei valori fondamentali della democrazia israeliana che i manifestanti rimproverano a Netanyahu di non rispettare. La sovrapposizione plastica, nello stesso spazio fisico, della lacerazione politica causata dalla riforma della Giustizia con la lacerazione emotiva provocata dalle atrocità di Hamas, spiega perché sulla figura del premier le divisioni restino profonde. Se nei quindici giorni seguiti al “Sabato Nero” l’ostilità contro Netanyahu sembrava sopita, ora torna a manifestarsi con la voce di chi, come alcune delle persone che sostano sulla piazza, sostiene che «il responsabile della mancata difesa del Paese è lui, e ora non può guidarci contro Hamas». A spiegare questo bivio è Amos Gilad, ex generale, già stretto collaboratore del premier Itzhak Rabin ed una delle voci più presenti nelle proteste di piazza. «Molti parlano dello scenario delle dimissioni di Netanyahu a campagna militare finita, facendo il paragone con quanto fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur - dice - ma io credo che sarebbe un grave errore, Netanyahu non è Golda Meir, a guerra finita cercherebbe di sopravvivere politicamente dando la colpa a qualcun altro e, poiché è lui il responsabile politico di quanto avvenuto, deve andarsene subito». Lo scenario di un premier che si dimette in Israele durante un conflitto in corso ha un unico precedente: Menachem Begin che, nel 1983, circa un anno dopo l’inizio della guerra in Libano, quando il numero dei caduti israeliani arrivò a superare i 500, andò nel suo ufficio e firmò le dimissioni, lasciando la guida del governo al compagno di Likud, Itzhak Shamir. «Netanyahu non è Begin e non lo farà - aggiunge Gilad - ma la Storia ci consegna il precedente di Neville Chamberlain che, nella Gran Bretagna in guerra con la Germania nazista, dopo quasi un anno di errori e umiliazioni, si dimise assumendosi la responsabilità di tali fallimenti. E arrivò Winston Churchill». Questo significa che la discussione sulla responsabilità del fallimento nella difesa del Paese il 7 ottobre non aspetta la fine della campagna di Gaza: è già cominciata. C’è chi afferma, come Amidror, che «la responsabilità di aver creduto alla tesi del Qatar sulla possibilità di comprare la coesistenza con Hamas» sia «dell’intero sistema politico- militare» e dunque è un errore identificare nel premier il solo capro espiatorio, e chi invece come Gilad ritiene che «il Chamberlain d’Israele debba dimettersi subito per consentire al Paese di unirsi davvero Attorno ai tavolini di un caffè di Ramat Aviv due ufficiali della riserva parlano fra loro, facendo capire quanto profonda è la lacerazione: «Netanyahu non ha mai voluto combattere guerre vere e proprie perché nei momenti decisivi esita sempre, per questo ha consentito agli ufficiali americani di essere coinvolti nella nostra pianificazione più segreta», afferma il più anziano, mentre l’altro ribatte «ora abbiamo un unico premier, dividersi su di lui sarebbe l’errore più grande, liquidiamo Hamas e poi torneremo a parlare di politica». Poco lontano dal Kanyon di Ramat Aviv ha sede l’Istituto nazionale di studi sulla sicurezza (Inss) guidato da Manuel Trajtenberg, l’economista già stretto collaboratore dei premier Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu nonché ideatore nel 2006 del primo Consiglio economico per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico. Ciò che distingue Trajtenberg è incrociare le conoscenze su economia e sicurezza per definire l’agenda delle priorità per il Paese. Davanti al Sabato Nero non esita a definire Israele «in uno stato di shock collettivo» perché il successo dell’attacco a sorpresa ha fatto venir meno «alcune certezze fondamentali» come «la solidità del sistema di sicurezza» e il «culto per l’alta tecnologia». A cui bisogna aggiungere il venir meno della «resilienza sociale» dovuta alle proteste di strada contro la riforma della Giustizia. «Israele è una nazione da ricostruire » afferma Trajtenberg, sottolineando che «si tratta di un momento di grande difficoltà» ma anche «con alcuni precedenti che dimostrano come queste transizioni appartengono al dna del Paese». Il caso più evidente è il 1973 «quando l’attacco a sorpresa subito da Egitto e Siria portò a scuotere le coscienze tutti in maniera talmente profonda che nel 1977 per la prima volta il Likud arrivò, con Menachem Begin, alla guida politica del Paese» e «nel 1978 vi furono gli accordi di pace di Camp David con l’Egitto di Sadat». E ancora: «È stata l’iper-inflazione del 1985, quando si toccava il 500 per cento l’anno, a spingerci verso le riforme economiche che hanno generato la Start Up Nation dell’alta tecnologia» e nel 2002 la Seconda Intifada con i kamikaze che si facevano esplodere a raffica nelle città israeliane portò «a rendersi contro che l’Olp di Yasser Arafat non poteva essere un partner per la pace» aprendo il terreno al dialogo con le nazioni arabe del Medio Oriente che ha portato agli Accordi di Abramo del 2020 con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan. «Nel dna di Israele c’è la capacità di affrontare le trasformazioni più inattese e profonde, uscendone più forti», assicura Trajtenberg, secondo il quale «adesso l’agenda da affrontare è costituita dai problemi che abbiamo scelto di non discutere troppo a lungo». Sono tre. Ecco di cosa si tratta. Primo: «Gli ortodossi saranno presto il 30 per cento della popolazione, c’è fra loro una nuova positiva tendenza all’integrazione, a cominciare dall’aumento di coloro che fanno il servizio militare, e bisogna spingerli a dare un maggiore contributo alla vita del Paese, senza nulla togliere al loro modo di vita, ma per farlo lo Stato deve diminuire i sussidi pubblici alle scuole religiose perché li spingono a isolarsi». Secondo: «Gli arabo-israeliani sono oltre il 20 cento della popolazione, al loro interno il tasso di criminalità è molto alto, dobbiamo investire per migliorare la loro qualità di vita, di studio, affinché la violenza scenda e l’educazione aumenti». Terzo: «I palestinesi sono i nostri vicini, parlare ora di convivenza sembra impossibile dopo quanto avvenuto con Hamas perché il livello di fiducia nei confronti di Gaza e della Cisgiordania non è mai stato così basso, ma ciò non toglie che la maggioranza di chi risiede fra Gaza e Ramallah non vuole la guerra con noi» e dunque «serve una nuova generazione di leader israeliani capaci di dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi », ovvero coloro che verranno dopo Mahmoud Abbas. Trajtenberg non si nasconde che si tratta di «argomenti ora quasi impossibili da affrontare per chiunque», ma vede nella volontà degli israeliani di battersi sulla riforma della Giustizia - tanto quelli contrari che i favorevoli - la possibile genesi di una «rottura positiva rispetto al presente». «Vincendo questa sfida - assicura - Israele ne uscirà più forte e coesa». Il fatto che proprio il cuore del movimento anti- Netanyahu oggi sia impegnato a sostenere ovunque la mobilitazione delle truppe contro Hamas «testimonia che qualcosa sta avvenendo nelle viscere del Paese». E gli occhi sono su quei leader emergenti nell’economia, della “Start Up Nation”, che si sono imposti durante le manifestazioni anti-riforma: dal venture capitalist Eyal Waldman – la cui figlia Danielle con il fidanzato è stata assassinata al rave party del Nova Festival - a Moshe Redman, volto di spicco dell’hi-tech. «Proprio come avvenuto in Italia dopo Tangentopoli, quando a cadere furono Craxi ed Andreotti e ad emergere furono Berlusconi e Prodi – afferma David Meidan – credo che anche in Israele la nuova generazione di leader verrà dal mondo dell’economia». C’è però anche un’altra Israele che bussa alle porte: «Nelle unità speciali dell’esercito i sionisti religiosi sono la maggioranza mentre alla mia epoca eravamo pochissimi e a prevalere erano i laici – dice il generale Amidror –. Questo significa un cambiamento importante nelle viscere della nazione, con la mobilitazione di nuove energie capaci di generare leadership». Quando i leader israeliani, politici e militari, affermano che non è loro intenzione occupare la Striscia di Gaza dopo l’eliminazione di Hamas, pongono la questione di chi la governerà a guerra finita. L’Onu è già presente con scuole e centri medici gestiti dall’Agenzia Unrwa e ciò significa che il suo personale – magari rafforzato o affidato a nuove forme di intervento – potrebbe svolgere un compito di assistenza umanitaria nel breve termine agli oltre 2,3 milioni di residenti civili. Ma resta la questione del governo nel medio-lungo termine, ovvero la gestione dell’amministrazione pubblica che dopo il ritiro unilaterale di Israele nel 2005 passò all’Autorità nazionale palestinese e dopo il colpo di mano del 2007 venne presa con la forza da Hamas. «La soluzione più logica può essere quella di restituire il governo della Striscia all’Autorità palestinese», afferma Yigal Karmon. Ma questo scenario porta con sé l’interrogativo su chi può essere ingrado di governare Ramallah con credibilità politica ed energia personale tali da riprendere il controllo della Striscia e, di conseguenza, riprendere il negoziato con Israele per arrivare ad una definitiva composizione del conflitto. Al momento alla Muqata siede – dal 2015 – il presidente Mahmoud Abbas e David Meidan sottolinea che «a dispetto dell’età e di una salute a volte considerata precaria, fino a quando resta lui, dobbiamo negoziare con lui». Tantopiù che Abbas, pur protagonista di serie crisi con Israele e autore in settembre di dichiarazioni incendiarie come quelle sulla Shoà («Hitler ha combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro fede»), non ha fatto venire meno la cooperazione nella lotta al terrorismo e per mantenere la sicurezza nella Cisgiordania. Le parole pronunciate da Abbas dopo il pogrom del 7 ottobre sul fatto che «Hamas non rappresenta la causa palestinese» avvalorano il suo ruolo di leader di un nazionalismo che resta basato su Fatah, un movimento laico, ostile al fondamentalismo religioso di Hamas. Ma Abbas è anche alla guida di un sistema di potere gestito da famigliari e stretti collaboratori, imputato – da anni – di corruzione endemica a scapito dello sviluppo della Cisgiordania. Sono queste accuse, molto diffuse nelle città palestinesi, che lo rendono poco credibile, vulnerabile, politicamente instabile. Da qui la costante attenzione di Israele, Stati Uniti ed Europa su possibili alternative. I nomi più popolari che circolano nella Cisgiordania sono due: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti. Dahlan è nato a Gaza, ha guidato Fatah nella Striscia e vive negli Emirati, dove gestisce affari economici di grande successo con l’evidente sostegno di Abu Dhabi: potrebbe essere l’uomo giusto per unificare i palestinesi con il sostegno del Paese arabo in questo momento al centro della normalizzazione dei rapporti con Israele. Ma «Dahlan non scalda i cuori dei palestinesi – aggiunge Karmon – a differenza di quanto avviene per Marwan Barghouti». La popolarità di Barghouti nasce dal fatto di essere stato uno dei leader della Prima ed anche de lla Seconda Intifada, quando furono proprio i suoi “Tanzim” a compiere alcuni dei più sanguinosi attentati contro Israele. Per questo Barghouti sconta nelle carceri israeliane ben cinque ergastoli e incarna la figura di uno dei nemici più feroci dello Stato ebraico. «Scarcerarlo per il nostro governo – osserva Manuel Trajtenberg – significherebbe tentare di ripetere l’operazione Nelson Mandela in Sudafrica ovvero puntare sulla sua popolarità per favorire una vera, profonda riconciliazione». Sulla carta è uno degli scenari possibili ma Karmon mette le mani avanti: «Dopo quanto avvenuto il 7 ottobre nessun israeliano sano di mente accetterà mai uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania, temendo che possa trasformarsi in un’altra Gaza, che ci attaccherebbe senza interruzione ». Per il fondatore di Memri, «nel breve periodo l’unica soluzione possibile è quella a cui pensò anni fa Yitzhak Rabin, assegnando alla Cisgiordania, e magari anche a Gaza, una completa autonomia ma senza armi e soprattutto del tutto staccata da noi, con una barriera ancora più consistente di quella che fece costruire Ariel Sharon al termine della Seconda Intifada». Le immagini che abbiamo visto in questi giorni in più località della Cisgiordania, con abitanti degli insediamenti ebraici che abbattono i grandi cartelli rossi ai confini con le aree controllate dall’Autorità palestinese danno la temperatura di quanto sta avvenendo in Giudea e Samaria – i nomi ebraici della Cisgiordania – dove la popolazione israeliana non sembra più intenzionata a rispettare i confini stabiliti dagli accordi di Oslo nel timore di subire attacchi come quelli che hanno insanguinato il Negev Occidentale. Anche perché in alcuni centri, come Hebron, il fondamentalismo è molto radicato mentre Jenin è divenuta nell’ultimo anno l’epicentro delle attività di nuovi gruppi violenti, protagonisti di attentati anti-israeliani. La sfida sulla narrativa C’è infine un fronte di sfida fra Israele e Hamas che ha a che vedere con la narrazione di quanto avvenuto il 7 ottobre. Gli abitanti dello Stato ebraico hanno vissuto l’eccidio di civili e le atrocità compiute dai jihadisti come una ripetizione delle più brutali persecuzioni del passato. Come riassume David Meidan: «È come se avessimo scoperto centinaia di Anne Frank» per la moltitudine di civili che sono stati obbligati a rifugiarsi in casa propria nella speranza di sfuggire alla caccia all’ebreo messa in atto dai jihadisti con mappe, liste di nomi e istruzioni precise tese a massimizzare la strage di civili. Hamas invece, nelle parole di Khaled Mashaal, ex capo del comitato centrale ora in Qatar, ribatte che «non è affatto vero che abbiamo ucciso dei civili»: si tratta di «propaganda sionista» tesa a far dimenticare «i crimini commessi contro la popolazione di Gaza con l’assedio economico e con i bombardamenti aerei». Per avvalorare questa versione il ministero della Sanità di Gaza, controllato come tutta l’amministrazione locale da Hamas, si è affrettato a imputare a Israele la bomba esplosa sull’ospedale battista di Al-Hali lo scorso 17 ottobre, «provocando 500 morti». In realtà prima i portavoce militari israeliani, poi alcuni fra i maggiori quotidiani internazionali – dal Wall Street Journal alNew York Times – hanno dimostrato con abbondanza di documenti che a essere esploso sull’ospedale è stato uno dei razzi difettosi lanciati dalla Jihad islamica palestinese verso Israele: poco dopo il lancio è caduto dentro la Striscia, come avviene nel caso di un quinto degli ordigni. Pur smentita, la notizia della “strage israeliana a Gaza” ha consentito a Hamas in più Paesi occidentali – dagli Stati Uniti alla Francia fino all’Italia – di oscurare il pogrom del 7 ottobre con le accuse di “crimini contro l’umanità” commessi da Israele. Una motivazione che si ritrova nelle manifestazioni pro-Hamas avvenute, in Europa come negli Stati Uniti, segnate da un’aggressività crescente contro gli ebrei: a Viale Padova, Milano, gridando a squarciagola «Togliete i confini, uccideremo gli ebrei» così come nella “Cooper Union” di New York City, dove una folla di facinorosi pro-Hamas ha assediato nella libreria gli studenti ebrei, minacciando di sfondare le porte per aggredirli. È l’aggressività contro gli ebrei in genere a ribadire la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo, evidenziando i pericoli che vengono dalla banalizzazione del pogrom di Hamas. Ma, nonostante ciò, la narrazione dei jihadisti sul 7 ottobre appare consolidata, facendo leva su gruppi organizzati, pubblicazioni web e manifestazioni in Nordamerica ed Europa contro i “crimini di Israele”. Cancellando con un colpo di spugna le “centinaia di Anne Frank” frutto del pogrom nei villaggi civili del Negev.

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