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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica Rassegna Stampa
29.10.2023 Viaggio in Israele nella sua ora più difficile - parte 1
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 29 ottobre 2023
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Viaggio in Israele nella sua ora più difficile»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/10/2023, a pag. 1-45, con il titolo “Viaggio in Israele nella sua ora più difficile” l'analisi del direttore Maurizio Molinari.

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

A tre settimane dall’attacco a sorpresa subito da Hamas, lo Stato ebraico si trova davanti a uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Il motivo è la sovrapposizione fra molteplici sfide, tutte con ben pochi precedenti. La prima e fondamentale riguarda la garanzia della propria sicurezza: la violenza medioevale di Hamas ha polverizzato una dottrina basata su prevenzione, intelligence e alta tecnologia, riportando in prima fila il ruolo dell’esercito tradizionale che negli ultimi anni era stato ridimensionato. In secondo luogo, c’è la necessità di ricostruire la deterrenza di Israele rispetto ai vicini più minacciosi – non solo Hamas ma anche Hezbollah e Jihad islamica – ottenendo dei risultati sul campo in grado di allontanarli in maniera decisiva dai propri confini. «Pensavamo di poter convivere con una tigre feroce davanti alla finestra, ma il Sabato Nero ci ha brutalmente ricordato che ciò espone a rischi drammatici», afferma Yuli Eldestein, capo della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset. E come se non bastasse c’è anche l’incertezza sulle dimensioni del campo di battaglia: l’assedio da parte delle milizie filoiraniane presenti in Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Gaza, Yemen e dallo stesso Iran espone ogni angolo di Israele al rischio di subire attacchi di qualsiasi tipo. Da qui la situazione di “emergenza nazionale” che ha ben pochi precedenti da quando nel 1948, al momento di nascere, Israele si trovò ad affrontare con ben pochi mezzi l’invasione simultanea degli eserciti di sei nazioni arabe. Come se non bastasse, di mezzo c’è una crisi degli ostaggi con un numero tale – almeno 220 – da aprire una profonda ferita nella società israeliana, anche perché si sovrappone a racconti e testimonianze sui dettagli delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso che hanno risvegliato in milioni di cittadini gli incubi delle persecuzioni subite dagli ebrei nel corso della Storia. E ancora: a fronte della solidarietà arrivata dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e molte altre democrazie occidentali, gli israeliani si sentono feriti dalle proteste filo-Hamas negli atenei americani come nelle piazze di Londra, Parigi e Milano perché sembrano ignorare il dolore causato dalla morte violenta di oltre 1.400 connazionali – molti dei quali mutilati, decapitati, bruciali e violentati - e il ferimento di almeno altri 5.400 a causa di un’operazione terroristica pianificata nei minimi dettagli dai jihadisti di Gaza al fine di uccidere il più alto numero di civili in maniere talmente brutali da far impallidire il ricordo delle stragi di Isis. E non è ancora tutto, perché «la resilienza sociale di Israele è indebolita a causa delle 40 settimane di proteste popolari contro la riforma della Giustizia del premier Benjamin Netanyahu - spiega l’accademico Manuel Trajtenberg – a cui ora si somma la sfiducia nella leadership di un capo politico che porta la responsabilità di aver subito il più grave attacco a sorpresa dalla guerra del Kippur del 1973». Per non parlare dello scenario di una pace regionale con l’Arabia Saudita congelato dall’attacco di Hamas e di un orizzonte di convivenza con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che, come assicura l’analista Yigal Karmon, «si potrà riprendere a considerare solo quando questa profonda ferita sarà rimarginata». C’è però anche un altro scenario, e a tratteggiarlo è David Meidan, l’ex negoziatore israeliano che trattò per cinque anni con i fondamentalisti di Gaza riuscendo a ottenere nel 2011 la liberazione del soldato Gilad Shalit: innescare dall’eliminazione di Hamas una scossa tale per l’intera regione da far nascere «una nuova architettura di sicurezza», basata sulla normalizzazione israelo- saudita e sulla formula dei “Due popoli per due Stati”, proprio come avvenne nel 1978 quando, appena cinque anni dopo la guerra del Kippur, Anwar Sadat e Menachem Begin siglarono a Camp David l’accordo di pace israelo-egiziano che resta il più strategico perno della stabilità in Medio Oriente. Insomma, assediato dall’esterno, lacerato all’interno e obbligato a ridefinire in fretta la strategia di sicurezza, Israele va incontro ad uno dei momenti più difficili dei propri 75 anni di esistenza, le cui conseguenze possono ridefinire gli equilibri dell’intera regione. Ognuno se lo costruisce in casa, come può. C’è chi usa un manico di scopa, altri preferiscono una trave di legno, altri ancora un ferro. Ciò che conta è che sia lungo quanto una porta del proprio appartamento e ad un’estremità abbia un foro per incastrarsi all’impugnatura. Stiamo parlando del ferma-maniglia ovvero l’oggetto rudimentale di cui ogni famiglia israeliana sente di aver bisogno dopo il “Sabato Nero”. 

Il ferma-maniglia serve per chiudere dall’interno il “mamad ” – la stanza di sicurezza che ogni israeliano ha dovuto costruirsi in casa per proteggersi dai razzi – per trovare rifugio in caso di pericolo. Le testimonianze dei sopravvissuti al pogrom di Hamas sono inequivocabili sul “ quando i terroristi non sono riusciti a sfondarlo o a bruciarlo, i civili hanno avuto la possibilità di salvarsi. Da qui l’importanza di porte e finestre blindate ma soprattutto di un congegno che renda impossibile forzarlo da fuori. Ci sono mariti e mogli che fanno a turno per verificare la capacità di chiudere in fretta il “ mamad ” “a prova di Hamas”. Così come ci sono bambini che dal 7 ottobre vogliono dormire solo dentro il “mamad ” – e non più nelle loro camerette – perché si sentono più protetti. Per i genitori è solo una delle conseguenze del pogrom avvenuto nelle comunità del Negev Occidentale: c’è chi non fa più uscire i figli da soli e chi ha ripensato in fretta orari di lavoro e tragitti urbani. La possibilità di incontrare un terrorista come quelli che hanno fatto strage di civili è diventata una feroce variabile della vita quotidiana. Se durante la Seconda Intifada il pericolo arrivava salendo su un autobus o entrando in un locale pubblico – perché i terroristi entravano in abiti civili, mischiandosi alla gente per farsi saltare in aria – e se negli anni Settanta gli israeliani impararono a temere i dirottamenti aerei o i pacchi abbandonati nelle strade, oggi le vite di milioni di persone si ridefiniscono con nuovi comportamenti quotidiani per proteggere la propria sicurezza dentro le pareti di casa. Perché Hamas ha dimostrato con la ferocia che intende raggiungere ovunque e uccidere, mutilare e bruciare ogni singolo abitante di Israele, solo in quanto tale. A svolgere un ruolo importante per coordinare la difesa del fronte interno è Yuli Edelstein, presidente della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset, a cui spetta mettere a punto tutti i relativi interventi legislativi: dalla chiusura delle scuole alla sospensione delle rate dei mutui, dal versamento di una percentuale importante degli stipendi ai riservisti fino alle macro-misure per sostenere il sistema economico. «È la prima volta nella nostra Storia recente che l’emergenza per un conflitto investe l’intero territorio nazionale, neanche un piccolo centro è escluso – spiega Edelstein, seduto nel suo ufficio a Gerusalemme – e questo significa che dobbiamo pianificare una miriade di attività». Come, ad esempio, spostare oltre 150 mila cittadini dai villaggi lungo i confini con Gaza e Libano trovandogli alloggi e accoglienza altrove nel Paese, incluse le tendopoli a fianco di Eilat. A sostenere Edelstein è l’esperienza maturata contro il Covid-19 quando era ministro della Salute: «Ci sono molti aspetti comuni con quanto avvenuto allora perché anche adesso è l’intero Paese a fermarsi e bisogna considerare ogni tipo di impatto sociale». Per avere un’idea di cosa intende basta osservare il via vai di automobili private nei centri di raccolta dove migliaia di cittadini arrivano per far arrivare ai soldati qualsiasi cosa possa servirgli: dai beni alimentari agli indumenti, ai caricatori dei cellulari. Una imponente catena umana, tutta a base volontaria, che si auto-gestisce – per telefono o con appositi siti web – e ogni singolo giorno pensa a come sostenere gli oltre 360 mila riservisti richiamati per affiancare le truppe di leva così come le famiglie sfollate dal Sud e dal Nord del Paese. Il nemico ibrido L’attacco del Sabato Nero ha rivoluzionato l’idea di terrorismo da cui Israele deve proteggersi. Fino al giorno prima c’era un consenso, fra militari e intelligence, sul fatto che Hamas fosse un’organizzazione terroristica simile alle molte che Israele ha dovuto combattere nella sua storia - da Settembre Nero autore della strage di atleti alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 all’Olp responsabile dell’attentato di Zion Square a Gerusalemme nel 1975, dall’assalto all’asilo del kibbutz di Maalot nel 1976 firmato dal Fronte per la liberazione della Palestina al massacro di Natanya nel marzo 2002 compiuto proprio da Hamas - con in più la caratteristica di dover amministrare dal 2007 la Striscia di Gaza e quindi le conseguenti responsabilità oggettive nei confronti di oltre due milioni di abitanti palestinesi. «Si è trattato di un grave errore perché Hamas non è solo tutto ciò ma anche qualcosa di più», afferma Yigal Karmon, direttore del centro studi “Memri” sul Medio Oriente e unico analista ad aver previsto – in settembre - l’attacco del 7 ottobre. «Questo qualcosa in più è l’ideologia che muove Hamas, la stessa che ha generato Al Qaeda e Isis - spiega - e nasce dalla genesi del movimento dei Fratelli musulmani nella prima metà del Novecento» con l’obiettivo di fondere tutti gli Stati arabi per dare vita ad un grande Califfato. È un’ideologia che predica la Jihad, persegue la distruzione degli infedeli - ebrei e cristiani – e la sottomissione dei musulmani “corrotti” nonché la sottomissione del mondo intero a una versione fondamentalista dell’Islam che «si propone di riportare il mondo intero a XV secoli fa». «L’errore di Israele è stato umano - sottolinea Karmon – perché ha creduto che con questa ideologia si potesse convivere». A dispetto di una Costituzione di Hamas che prevede, in maniera esplicita, la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei, e ignorando ciò che l’intelligence israeliana ha continuato a raccogliere negli ultimi mesi: prove evidenti, concrete, su ciò che si stava preparando. Se però sono state «non considerate, ignorate, sottovalutate», aggiunge Karmon, «è perché non solo il premier Benjamin Netanyahu ma anche i suoi predecessori e l’intero establishment della sicurezza, da anni, credeva nella politica di far leva sui fondi del Qatar per Hamas al fine di “pagare la pace”». Proprio così: Israele si è fidata dell’Emiro Al-Thani del Qatar, in ragione dei legami fra Doha ed i Fratelli musulmani, e ha consentito agli inviati qatarini di far arrivare, ogni mese, valige con milioni di dollari in contanti a Gaza. Hamas assicurava al Qatar, e dunque indirettamente a Israele e agli Stati Uniti, che quei soldi servivano ad amministrare la Striscia e a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici ma «la realtà era ben diversa perché ogni razzo, mitra, esplosivo, motocicletta, tunnel e arma di Hamas è stata pagata con quei fondi». Se dunque l’Iran è il più importante alleato militare di Hamas, la fonte di armi, intelligence ed addestramento, «è invece il Qatar l’origine delle sue maggiori entrate economiche», sottolinea Karmon, aggiungendo che «l’errore strategico di Netanyahu e dell’apparato di sicurezza nazionale è stato credere alla tesi del Qatar che la pace poteva essere acquistata». Così come la Casa Bianca, prima con Donald Trump e poi con Joe Biden, si è fidata del Qatar come mediatore con i talebani afghani - venendo sorpresa dal blitz con cui si impossessarono di Kabul il 15 agosto 2021 - adesso è il turno di Israele a dover prendere attoche la mediazione qatarina con Hamas, ha consentito ai jihadisti di Gaza di avere le risorse necessarie per attaccarla. «Ciò non significa - precisa Karmon - che Doha sapesse in anticipo dei piani di Hamas, ma pone un problema politico gigantesco sulla credibilità di Doha come garante dell’affidabilità dei gruppi jihadisti». A questo bisogna aggiungere che Hamas riceve, ogni mese, donazioni “caritatevoli” raccolte da una vasta rete di moschee e centri di cultura islamica controllati dai Fratelli musulmani - anzitutto negli Usa, in Gran Bretagna e in Turchia - nel pieno rispetto delle leggi vigenti in questi Paesi. «È questo network di finanziamenti che sostiene imam e moschee che diffondono l’ideologia dei Fratelli musulmani, della Jihad Islamica, di Al Qaeda, di Isis e di Hamas», sottolinea Karmon, il cui obiettivo «non è politico di ottenere questo o quel risultato ma strategico, sottomettere il mondo alla Jihad». C’è questa radice ideologica del nemico alla genesi della difficoltà di combatterlo perché l’obiettivo di sottomettere con la violenza il mondo alla Jihad può rinnovarsi, da un secolo all’altro, da un Paese all’altro, anche solo con la diffusione di un testo, un video o l’audio di un sermone. A conferma della difficoltà della sfida contro questa ideologia, quando nel 2014 gli Stati Uniti hanno deciso di creare una coalizione internazionale - con la partecipazione di Paesi europei, mondo arabo, guerriglia curda, Iran e Russia per sconfiggere l’Isis di Abu Bakr al-Baghdadi, hanno avuto bisogno di ben quattro anni per smantellare lo Stato jihadista che era stato creato a cavallo dei confini fra Iraq e Siria. Hamas, al pari di Isis, è dunque un nemico ibrido che somma al controllo militare di territori anche amministrazione, cibo, moschee e scuole coraniche per le popolazioni sottomesse. 

La brutalità dei suoi seguaci nasce da un’ideologia che recluta facendo leva su messaggi pseudo-religiosi disseminati grazie all’uso delle più moderne tecnologie, per finanziarsi come per diffondere la cultura della morte. Un conflitto su tre livelli Karmon studia la Jihad dal suo studio nel centro di Gerusalemme mentre poco lontano da Tel Aviv vive Jacob Amidror, in una casa dove ospita alcuni rifugiati da villaggi del Nord che sono stati completamente evacuati per proteggerli dal rischio di attacchi degli Hezbollah libanesi. Si tratta di una madre e due figlie. Amidror le ospitò già in occasione della guerra in Libano del 2006: sono passati 17 anni, la madre adesso ha i capelli grigi, le figlie sono cresciute ma dormono nelle stesse stanze che avevano allora. «La storia per molti versi si ripete - dice Amidror, già consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu e fra i più apprezzati analisti di strategia israeliani - ma questo conflitto è diverso dagli altri». E mette l’accento su “diverso” per spiegare: «Si tratta di un conflitto che si sviluppa su tre livelli: il primo e più diretto, è la guerra iniziata da Hamas contro di noi con le atrocità contro i civili, perché ora Israele deve rispondere e cancellare Hamas, è il nostro popolo a chiedere questa risposta. C’è però un secondo livello ovvero la necessità di schiacciare Hamas per ricostruire la capacità di deterrenza israeliana contro simili nemici, a cominciare da Hezbollah in Libano, facendogli capire che ciò che capita ora a Hamas capiterà anche a loro se dovessero mai pensare di attaccarci in maniera simile. Infine, il terzo livello, perché lo scontro fra Hamas e Israele è un tassello del conflitto più ampio fra le democrazie e i suoi nemici di cui il presidente americano Joe Biden ha parlato nel discorso alla nazione del 19 ottobre». Amidror conosce profondamente Israele ma anche in America si sente a casa. La sua lettura del conflitto iniziato da Hamas tiene assieme più necessità: Israele deve sconfiggere Hamas, impedire a Hezbollah di attaccarci e aiutare l’America a confrontarsi con un asse di nemici che include l’Iran, fornitore di armi alla Russia di Vladimir Putin come nessun’altra nazione a eccezione della Corea del Nord. Si apre dunque un fronte parallelo a quello dell’Ucraina perché anche Kiev da una parte combatte per difendere la propria esistenza dall’aggressione russa e dall’altra fa parte dello schieramento delle democrazie occidentali alle prese con la minaccia della Russia, intenzionata a cambiare a suo vantaggio l’architettura di sicurezza, non solo europea. «Qui in Medio Oriente, lo scontro fra democrazie e autocrazie dipenderà dalla nostra capacità di sconfiggere Hamas nella Striscia » sottolinea Amidror, secondo il quale la campagna israeliana sarà assai diversa da quanto finora abbiamo visto nei precedenti interventi di terra a Gaza - l’ultimo risale al 2014 - perché ora il fine è sradicare completamente l’organizzazione jihadista. «Per tentare di capire cosa potrà avvenire dobbiamo guardare al precedente del 2002, quando Israele intervenne nella Cisgiordania e pose fine alla Seconda Intifada scatenata da Yasser Arafat dopo aver rifiutato a Camp David da Bill Clinton ed Ehud Barak la più ampia e seria offerta di far nascere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza». L’attacco di terra Le parole di Amidror spiegano perché c’è una convergenza fra gli analisti militari in Israele sulla tipologia di intervento che l’esercito sta preparando a Gaza. La sconfitta della Seconda Intifada avvenne infatti con un’operazione anche allora di terra che Ariel Sharon, che era premier, coordinò meticolosamente per eliminare le cellule più violente - soprattutto Hamas ma non solo - che bersagliavano le città israeliane con attentati e attacchi suicidi. «Si trattò di identificare ed eliminare tutti i gruppi terroristi in uno spazio urbano altamente popolato - ricostruisce Amidror - fu molto difficile e servirono quattro anni di tempo, ma i soldati caduti passarono da un numero molto alto nei primi due anni a molto meno in seguito, fino a diminuire in maniera decisiva». Ora Israele non ha quattro anni di tempo per liquidare Hamas ma quando il premier Netanyahu parla di “tutto il tempo necessario” lascia intendere che non sarà una campagna breve. La richiesta ai civili di Gaza di spostarsi verso Sud lascia intendere che gli israeliani vogliono entrare da Nord, per crearvi la base da cui operare dentro Gaza City, dove ritengono si trovino la maggior parte delle infrastrutture militari di Hamas. «Avremo molto morti, sarà un’operazione difficile in presenza della popolazione civile, dobbiamo aspettarci giorni molto difficili» ammette Amidror, aggiungendo però che «c’è una grande coesione nel Paese sulla necessità di entrare e distruggere Dal ricollocamento di chi vive lungo i confini alle misure di sostegno a civili e militari, è la prima volta nella storia recente di Israele che l’emergenza per una guerra investe l’intero territorio nazionale Il conflitto a Gaza è diverso dai precedenti Perché è saltata la convinzione che con Hamas si potesse convivere, e il Paese deve riaffermare la sua capacità di deterrenza nei confronti di tutti i nemici, anche ai confini col Libano.

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