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La Repubblica Rassegna Stampa
26.10.2023 Uri Davis, l’ebreo che ha tradito Israele
Commento di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 26 ottobre 2023
Pagina: 2
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «'Né con lo Stato ebraico né con Hamas'. La versione di Ramallah»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/10/2023, a pag. 1, con il titolo “ 'Né con lo Stato ebraico né con Hamas'. La versione di Ramallah” l'analisi del direttore Maurizio Molinari.

(Ecco la fine di Israele se questa criminale ideologia mettesse radici. E' bene conoscerla. Confidiamo nell'intelligenza dei lettori di Repubblica affinchè colgano il significato del nostro titolo e apprezzino il non facile tentativo di mettere in guardia scelto dal direttore Molinari)

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

A metà strada fra la Muqata e la piazza intitolata a Nelson Mandela c’è una palazzina biancastra dove incontriamo Uri Davis, l’accademico britannico nato a Gerusalemme che Yasser Arafat volle al suo fianco dentro Fatah e oggi fa parte del gruppo di intellettuali più vicini al presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), con la carica di vicecommissario agli Affari Politici dello stesso movimento che resta la spina dorsale del governo palestinese in Cisgiordania. Davis viene da una famiglia ebraica, genitori tedeschi e cecoslovacchi fuggiti dall’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, e ha scelto nel 1948 la battaglia, politica e legale, «a favore della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani» che lo ha portato nel 1987 a pubblicare a Londra il libro-manifesto “Apartheid Israel” che ha dato vita a una delle battaglie politiche e culturali più importanti dell’Olp di Arafat, oggi fatta propria da Abbas al fine di non accettare l’identità di Israele come “Stato ebraico”. Già capo dell’ufficio di Fatah a Londra, sposatosi nel 2007 a Ramallah con una veterana militante «grazie all’autorizzazione dei vertici di Fatah » e con in tasca due passaporti israeliano e britannico - ma «leale solo allo Stato di Palestina», Uri Davis dà voce a opinioni e sentimenti che riflettono le idee che circolano nel movimento guidato da Abbas, disegnando per il Medio Oriente un orizzonte che sfida senza mezzi termini tanto i valori di Israele quanto la violenza di Hamas. La sua premessa sono le parole pronunciate da Mahmoud Abbas subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro i villaggi civili in Israele. «Hamas non rappresenta i palestinesi, a rappresentarli è Fatah ». E poi aggiunge: «Fatah fecela lotta armata per dieci anni, dal 1965 al 1975, ma poi scelse una strada differente» per il semplice motivo che «la lotta armata non può essere mai il fine ultimo, l’obiettivo deve essere sempre politico». La strage di civili israeliani nasce dunque da «un calcolo criminale da parte di Hamas», sottolinea, precisando che «c’è proprio questa decisione, da loro adottata, all’origine delle devastazioni che si stanno abbattendo su Gaza». Il giudizio sui fondamentalisti islamici che governano la Striscia non potrebbe essere più duro. Le parole sono soppesate, scandite con cura. Ed è lo stesso approccio che adopera per sferzare lo Stato di Israele, «che assegnando solo agli ebrei il controllo del 93 per cento delle sue terre segue l’esempio del Sudafrica dell’apartheid che favoriva i bianchi a scapito dei neri». Davis si considera un fedele interprete della scelta compiuta da Arafat nel 1993 di firmare gli accordi di Oslo con Israele, sulla base del reciproco riconoscimento e della formula “Due popoli per due Stati”, ma ritiene che la convivenza possa essere garantita solo dal «pieno rispetto di tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a cominciare dalle 181 e 194» che accompagnarono la nascita di Israele nel 1948. Tenendo nelle mani la piantina della spartizione fra “Stato ebraico” e “Stato arabo” che l’Onu approvò nel 1947, Davis spiega: «Bisogna ripartire da qui, uno Stato per gli ebrei e uno per gli arabi palestinesi, con Gerusalemme città internazionale». E subito dopo aggiunge quale è la conseguenza possibile: «Due Stati all’interno di una federazione, confederazione o unione come lo sono il Belgio, la Svizzera, l’Unione Europea e anche gli Stati Uniti» perché «la chiave per convivere è la sovranità» e, ad esempio, «negli Stati Uniti la sovranità è federale, mentre esistono al loro interno Stati come il Michigan, il Texas e la California, ognuno con la propria storia, cultura e i propri interessi» che possono essere anche in contrasto fra loro su singole politiche. Non dunque «due popoli per due Stati, divisi e vicini» e neanche uno «Stato binazionale » per far coesistere identità così differenti bensì «una federazione sovrana che contiene dueStati diversi, uno ebraico e l’altro arabo». A cui anche la Giordania di re Abdallah «potrà decidere se aderire o meno». «Chi vive fra il Giordano e il Mediterraneo deve essere garantito da una sola sovranità anche se all’interno possono coesistere due Stati», sottolinea, affermando che «questa è la possibile declinazione nella nostra regione del precedente di Mandela in Sudafrica ». Con la possibile aggiunta del regno hashemita, dove oltre la metà della popolazione è di origine palestinese e dunque appartiene allo stesso spazio umano. La mappa che Davis ha in testa contesta alla radice l’idea stessa di Israele come «Stato ebraico» e vede nella nascita dello «Stato sovrano di Palestina» un passo indispensabile per arrivare a «una coesistenza fra uguali». «Per questo tengo sempre in tasca il mio passaporto israeliano, così come la mia residenza è a Giaffa». È un orizzonte che al momento stride con ogni tassello del mosaico mediorientale scosso dalla strage di civili israeliani compiuta da Hamas e dai raid israeliani sulla Striscia, ma Davis 80 anni di età - è convinto che la Storia stia dalla sua parte: vede nel Sudafrica post-apartheid il precedente a cui i leader palestinesi devono ispirarsi «per convivere con gli ebrei in una situazione di parità ». E poi guarda alla possibile soluzione della guerra in corso a Gaza disegnando una via d’uscita cherientra nella sua visione regionale. L’Autorità nazionale palestinese che governa sulla Cisgiordania «può tornare ad assumere il controllo della Striscia», come era fino al colpo di mano militare subito da parte di Hamas del 2007, «ma non certo grazie ai carri armati israeliani ». Lo scenario a cui Davis pensa è un rientro di Fatah a Gaza in maniera indipendente dal conflitto Hamas-Israele. E se ciò avvenisse «i due passi seguenti dovrebbero essere lo scambio completo di prigionieri fra tutti gli israeliani catturati e tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane» con un relativo e complementare «totale cessate il fuoco». Ovvero, se Mahmoud Abbas tornasse a governare Gaza dopo Hamas, le due prime mosse verso Israele sono già scritte. Ma non è tutto perché Davis, facendo riferimento a conversazioni che si ripetono in questi giorni a Ramallah, va oltre e parla di una «conferenza internazionale sul Medio Oriente» che dopo la fine delle ostilità a Gaza potrebbe concludersi con la nascita dello Stato sovrano di Palestina riconosciuto da Israele. È una prospettiva «che si lega al negoziato in corso fra Arabia Saudita e Israele» perché Riad «dopo aver parlato tanto, adesso deve dimostrarci con i fatti di volerci aiutare» e una simile conferenza potrebbe rientrare nel più ampio accordo regionale con gli Stati Uniti per arrivare alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Ciò che colpisce nel ragionamento di Davis è quanto tutto sia lineare e consequenziale: l’errore compiuto da Hamas il 7 ottobre, la devastazione in corso a Gaza, il possibile ritorno di Fatah nella Striscia e un accordo regionale per far coincidere la legittimazione dello Stato di Palestina con l’accordo israelo-saudita, schiudendo le porte ad una federazione «dal Giordano al Mediterraneo». Se è vero che Ramallah guarda con preoccupazione la popolarità di Hamas dopo l’attacco a Israele e teme ancor di più le proteste di piazza contro il presidente Mahmoud Abbas a causa di elezioni che continuano ad essere rinviate - si è insediato nel gennaio 2015 -, quanto sta avvenendo a Gaza è destinato a creare una nuova opportunità all’anziano leader. «Per il semplice motivo che a governare è ancora lui e non ci sono alternative in circolazione», afferma un diplomatico arabo accreditato alla Muqata. Da qui l’interpretazione che prevale a Ramallah sui passi finora compiuti da Mahmoud Abbas: una durissima condanna dei «crimini commessi da Israele contro la popolazione civile a Gaza» ma neanche una parola a difesa di Hamas, sua acerrima rivale. È questa cornice che spiega anche l’apertura di Davis sui fondamentalisti islamici palestinesi: «Paragonarli all’Isis, come fate in Occidente, è sbagliato perché lo Stato islamico voleva creare un Califfato su tutto il mondo musulmano mentre Hamas si batte solo contro Israele». È una maniera per dire ai seguaci di Hamas che se sceglieranno di cambiare strada e guardare a Ramallah, facendo prevalere il nazionalismo sull’integralismo, troveranno ascolto. Da qui le ultime parole, destinate «ai leader europei e anche alla vostra presidente del Consiglio » perché «anziché paragonare Hamas e Isis dovreste mobilitarvi in difesa dei diritti umani e contro i crimini commessi ai danni dei civili di Gaza». Ma non è tutto, perché il veterano di Fatah, prima di salutarci, tiene anche a far sapere che sta osservando da vicino la società israeliana e vede «segnali positivi» nella «mobilitazione popolare contro Benjamin Netanyahu». Ecco perché: «L’America lasciò il Vietnam a seguito della sollevazione dell’opinione pubblica contro quella guerra, il Sudafrica si affidò a Mandela perché i bianchi non credevano più nell’apartheid contro i neri e dunque la rivolta di popolo degli israeliani contro il governo può portarli a rinunciare all’ideologia dello Stato ebraico, creando un’opportunità per la nascita di una federazione con due Stati al suo interno ». Saranno i prossimi mesi a dirci se la visione del veterano di Fatah potrà fare strada, di sicuro la sua scelta di farla conoscere a un pubblico europeo lascia intendere la volontà di alzare il velo su cosa sta maturando a Ramallah, percependo l’opportunità di assistere a una inattesa svolta in Medio Oriente.

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