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La Repubblica Rassegna Stampa
08.10.2017 L'inferno di Gunskirchen
Recensione di Wlodek Goldkorn del libro di Edith Eva Eger

Testata: La Repubblica
Data: 08 ottobre 2017
Pagina: 19
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Danzando nel lager»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 08/10/2017, a pag.19, con il titolo
" Danzando nel lager " la recensione di Wlodek Goldkorn

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Edith Eva Eger

Interessante quanto scrive Goldkorn su Hannah Arendt:  " In alcune pagine di La scelta di Edith, un libro scritto con molta apparente semplicità, ma tra i più sofisticati mai usciti dalla penna (o dal computer) di una sopravvissuta ai lager nazisti, ci sono alcune scene che sembrano smentire la tesi di Hannah Arendt sul Male come una serie di procedure burocratiche."

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Wlodek Goldkorn

L'inferno è Gunskirchen, una filiale del campo di concentramento di Mauthausen. Alla vigilia della liberazione del lager da parte delle truppe americane vi si svolgono episodi come questi: un bambino viene legato a un albero e le SS gli sparano sulle mani, sui piedi, sulle orecchie; un tiro a bersaglio per il divertimento della truppa; o anche, a una donna incinta cui vengono le doglie un militare nazista lega le gambe, in modo che non partorisca ma muoia tra i più atroci dolori. In alcune pagine di La scelta di Edith, un libro scritto con molta apparente semplicità, ma tra i più sofisticati mai usciti dalla penna (o dal computer) di una sopravvissuta ai lager nazisti, ci sono alcune scene che sembrano smentire la tesi di Hannah Arendt sul Male come una serie di procedure burocratiche. Il Male appare, invece, in questo testo, come fenomeno quasi connaturato agli umani e come il piacere nel far soffrire e uccidere gli altri. Salvo che il Male non vince, se noi vogliamo. L'autrice del libro, Edith Eva Eger, ha novanta anni. E un'ebrea ungherese, nata in una città che ora appartiene alla Slovacchia. Vive, dalla fine degli anni Quaranta, negli Stati Uniti e di mestiere fa la psicologa. Il suo testo lo ha scritto non tanto per fornire l'ennesima testimonianza sulla sorte subita durante la Shoah (ce ne sono migliaia e migliaia; e diciamola terribile verità: pochi aggiungono qualcosa di nuovo a un pubblico non specialista), ma perché lei la sua esperienza l'ha elaborata in modo da trasformarla in un metodo di terapia della psiche. Edith Eva Eger si occupa nella vita professionale di persone che hanno subìto un trauma, reduci delle guerre, vittime e attori di violenze; e sostiene che attraverso la strategia di resilienza (la capacità di subire un urto senza frantumarsi) si possono superare anche i traumi, appunto più devastanti. Insomma, c'è vita dopo Auschwitz. Ma procediamo con ordine, anche perché nel libro le conclusioni pratiche e teoriche arrivano alla fine, dopo la narrazione della storia personale. Edith non ha neanche diciassette anni quando finisce, con la famiglia, ad Auschwitz. La madre viene mandata in una camera a gas, probabilmente (ma chissà se era andata davvero così) per una risposta sbagliata che diede la ragazza al dottor Mengele. E lo stesso Mengele appare subito dopo, nel racconto. Edith è una ballerina. E il medico assassino le ordina di danzare per lui. E una scena madre che per sempre resterà nella mente dell'autrice. Lei, mentre balla, si immagina di essere sul palco di un teatro, libera. Scrive: "Lui sarà sempre costretto a vivere con del perdono e la liberazione dai ricordi atroci. Come quello di quando Mengele le ordinò: "Balla" quello che ha fatto". E anche: "Prego che, per il suo bene, non senta il bisogno di uccidermi". Alla fine della danza, conclusa con una "elegante spaccata", Mengele le getta una pagnotta. Ad Auschwitz Edith sopravvive grazie al forte rapporto con la sorella Magda. Si sostengono a vicenda, imparano come evitare di finire ammazzate. Le due ragazze sono insieme anche nella marcia della morte, la mostruosa evacuazione dei prigionieri del lager, mentre le truppe sovietiche avanzavano verso Berlino. E anche durante quel cammino Edith compie un gesto di trasgressione estrema. Ruba il cibo, un soldato tedesco se ne accorge, ma non la fucila. La sera poi viene nella baracca e le regala (anche lui) una pagnotta. Più morta che viva, viene salvata da un militare americano che a Gunskirchen, appunto, la estrae, muta e incapace di muoversi, da una catasta di cadaveri, ammassati e non sepolti. Tutto questo racconto serve a narrare, nella seconda parte del libro, il modo in cui la protagonista ha smesso di essere vittima ed è tornata soggetto della propria vita e delle proprie scelte. Non è una storia a lieto fine e facile. Sposa un uomo che si prende cura di lei. Lui è ricco, viene imprigionato nella Cecoslovacchia comunista, lei riesce a farlo fuggire dal carcere, scappano in Occidente, arrivano in America; vivono con due figlie e un figlio in povertà; divorziano, poi si rimettono insieme perché scoprono di amarsi davvero e così via. In America Edith Eger scopre l'esistenza di Viktor Frankl, psicologo viennese importante e autore del fondamentale Uno psicologo nei lager, il racconto delle sue esperienze nei campi nazisti. Frankl è l'inventore della logoterapia: soprattutto sostiene che siamo sempre padroni nella nostra vita, che siamo sempre in grado di dare un significato alla nostra esistenza; e siamo liberi. Liberi anche ad Auschwitz? Intanto, Frankl dice che lui è sopravvissuto gra zie alla sua immaginazione, quindi trattasi di una forma di libertà. Edith Eger è più radicale ed estrema. Scrive: "Durante ogni fila per la selezione la posta in gioco era la vita o la morte, e non ero io a scegliere. Ma anche allora, nella mia prigione (...) potevo reagire (...). Potevo scegliere di dirigermi verso lo spinato elettrificato (...) oppure potevo scegliere di lottare e vivere". La parte più controversa del libro è il perdono. L'autrice, un giorno invitata a parlare ai cappellani militari Usa, a Berchtesgaden, luogo amato da Hitler, si trova a dormire nella stanza d'albergo che fu di Goebbels. Lo shock è immenso, le difficoltà quasi insormontabili. Ma poi, dice di aver quella  notte perdonato anche Hitler; non per lui, ma per sé stessa, per non essere ostaggio dell'odio e del desiderio di vendetta. Possiamo obiettare (parafrasando Heinrich Heine) che il perdono è mestiere di Dio e non degli umani. Ma è un dettaglio, perché resta la lezione di Edith Eger. la memoria di Auschwitz non serve a chiudersi in una prigione di sofferenza, ma può  diventare un fattore di emancipazione. Sta a ciascuno di noi decidere.

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