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Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/09/2017, a pag. 33, con il titolo 'Grazie, papà insieme a te ho capito chi era Ulisse', l'intervista di Antonio Monda a Daniel Mendelsohn.
Il pezzo che riprendiamo non ha stretta attinenza con i temi di cui si occupa IC, ma è un'occasione per ricordare e consigliare a tutti i nostri lettori - che non l'avessero letto - il capolavoro "Gli scomparsi" di Daniel Mendelsohn. Ecco l'intervista:
Qual è il motivo che l’ha spinta a scrivere il libro? «La necessità di conoscere mio padre. Il libro è una doppia biografia: di Ulisse e di Jay Mendelsohn. Quando cominciò a seguire i miei corsi non potevo immaginare che dopo il viaggio nel Mediterraneo avesse pochi mesi da vivere». Di cosa parla nel profondo il suo libro? «Di quello che impariamo dagli altri e di quello che degli altri non riusciremo mai a capire». Suo padre cerca di convincerla che Ulisse non era un vero eroe perché mentiva e tradiva la moglie. «Ogni volta che interveniva in classe pensavo: “questo è un incubo”. Ma poi ogni suo intervento mi faceva capire qualcosa in più di lui e dell’Odissea. Mio padre imputava a Ulisse anche altre debolezze, oltre alla spregiudicatezza: il fatto di essere un leader che perde tutti i suoi uomini e di essere aiutato dagli dei. In fondo, diceva, gli unici suoi successi erano dovuti ad aiuti esterni, e questo per lui era inconcepibile».
Quanto ha pesato il fatto che suo padre fosse ateo? «Moltissimo, la debolezza che per i credenti è un aspetto centrale dell’umanità, e persino motivo di orgoglio, per lui era invece un elemento di miseria. Lo sguardo è antitetico a quello del sottoscritto, credente, o a quello di mia madre, molto religiosa». Il libro è una celebrazione dell’amore coniugale tra Ulisse e Penelope, ma anche tra i suoi genitori. «È un amore che sopravvive a tante vicissitudini e in qualche modo ne è rafforzato. È una forza eterna che nasce dalla debolezza, ma sta parlando ancora uno spirito religioso». Suo padre era un matematico ed esaminava ogni cosa scientificamente. Lei è un classicista. «Questo elemento lo affascinava, proprio perché distante dal suo sguardo sul mondo. Quando ero piccolo, era sconcertato che non avessi un approccio razionale e scientifico alla vita, ma poi è stato lui a fare un passo verso di me. E, come disse una volta, non è mai troppo tardi per imparare ». Dove nascono la durezza e la visione cupa del mondo in cui credeva suo padre? «Dall’esperienza al fronte nella seconda guerra mondiale e da una vita difficile, nella quale la scienza e la razionalità apparivano l’unico sollievo, in qualche modo la divinità». Lei è un critico severo, a volte spietato: il tono tenero del libro è sorprendente. «Lo ammetto: mentre lo scrivevo ha sorpreso anche me: non si smette mai di imparare». Nel libro si chiede: qual è la vera identità dell’uomo? E quante identità ha ogni uomo? «Non ho trovato una risposta e ho solo imparato che mio padre, come tutti, ne aveva tante: l’ho capito anche quando abbiamo parlato della mia omosessualità, che lui e mia madre hanno vissuto con assoluta normalità». Cosa ha imparato da questa esperienza con suo padre? «La sua intima e nascosta tenerezza. Ho imparato che non lo conoscevo bene: ignoravo i suoi aneliti, le speranze, le insicurezze. E ho appreso quanto poco sappiamo dei nostri genitori e dell’amore ». È riuscito ad apprezzare quello che lui definiva la “dimensione estetica della matematica”? «Nella misura in cui un cieco comprende la bellezza di un fiore e ne intuisce la purezza». Cita Seferis: “la prima cosa che Dio ha creato è l’amore”. «Una poesia immortale. Ma quel verso è da mettere insieme a uno successivo: “la prima cosa che Dio ha creato è il viaggio”. Come è possibile che Dio abbia creato due prime cose? La risposta è nella divinità e poi nel fatto che chi parla è un poeta. Se ci pensa, le due creazioni sono l’essenza della stessa Odissea ». Si può definire il suo libro la storia dell’educazione di un figlio? «Le rispondo che ammetto di essermi identificato con Telemaco ». Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/ 49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante rubrica.lettere@repubblica.it |
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