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La Repubblica Rassegna Stampa
30.04.2017 Il primo e l'ultimo libro di Amos Oz: una favola sulle nuvole
Recensione di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 30 aprile 2017
Pagina: 19
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Il cielo magico di Oz»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA - ROBINSON di oggi, 30/04/2017, a pag. 19, con il titolo "Il cielo magico di Oz" la recensione di Susanna Nirenstein al libro di Amos Oz.

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Susanna Nirenstein

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La copertina (Feltrinelli ed.)

Amos Oz, il più grande tra gli autori israeliani (da anni in odore di Nobel), classe 1939, aveva da poco dato alle stampe Michael mio, la storia di un amore naufragato, una narrativa psicologica e lucida tutta interiorità, sentimenti, Gerusalemme, che ha per sfondo il clima della guerra di Suez del 1956. Uscito nel 1968 era stato il suo primo grande successo, anche se erano già apparsi numerosi articoli sul quotidiano Davar e la raccolta di racconti Le notti dello sciacallo, più spaccati, più personaggi della vita di kibbutz che Oz ha sperimentato a lungo, quando, all'indomani del suicidio materno, adolescente, decise di lasciare il padre conservatore e chiuso tra i suoi libri, cambiare il cognome da Klausner in Oz (forza) e diventare un "vero" israeliano abbronzato alla guida di un trattore (una lunga vicenda che all'inizio di questo millennio ha meravigliosamente narrato in Una storia di amore e di tenebra).

Dopo il lavoro nei campi e le assemblee collettiviste, dunque, scriveva. Ma non erano sempre quadri realistici e indagini interiori. E d'altra parte come avrebbe potuto? La letteratura ebraica che l'aveva formato conteneva di tutto, dalla Bibbia e il Talmud in poi, a cominciare dal Midrash — la Torah orale — piena di più voli pindarici e miracoli di quanto chi non ne ha mai letto un brano possa pensare — per finire con i racconti chassidici, Kafka, Bruno Schulz, qualcosa del suo maestro Agnon così carico di atmosfere mistiche e humour, unico premio Nobel israeliano (1966), e perfino certi capitoli dei suoi contemporanei, come Abraham Yehoshua (e più tardi anche Grossman con Vedi alla voce: amore): da quei cappelli erano usciti spesso dei lampi di magia, surrealtà, metafisica.

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Amos Oz

Fu con queste impronte nel cuore e nella mente probabilmente che Oz si dedicò a Tocca l'acqua, tocca il vento (pubblicato in Israele nel 1973, ora in uscita come sempre per Feltrinelli, tradotto da Elena Loewenthal), un libro delicato e bizzarro con un imprinting favolistico (ma del resto il tocco kafkiano nei racconti di Scene dalla vita di un villaggio era già fortissimo), scritto come sempre con grazia e perfezione stilistica. Tutto inizia nell'inverno 1939, in Polonia, ovvero sotto l'occupazione tedesca. Protagonista Elisha Pomerantz, un insegnante di fisica figlio di un orologiaio sempre con la testa per aria a cercar di risolvere teoricamente i misteri della natura, che si nasconde in una catapecchia in mezzo al bosco dove era morto una specie di mago. In qualche modo la gente proietta su di lui quei poteri magici e lo teme, mentre lui vaga, osserva i cieli, gli uccelli, le foreste (oh la meraviglia delle foreste polacche), le assurdità umane e soprattutto delle SS, suona l'armonica, finché un giorno non viene catturato, e nella fetida stanza in cui è imprigionato, chiamando in causa stupefacenti congetture e sintesi appassionate in un eccellente e nobile tedesco, si ritrova a cercare "una scintilla nel nero fuoco dell'inferno", un contatto umano e teorico con quei soldati che pensano solo allo strutto di porco.

Il disgusto per la mancata risposta è totale: decide di volar via dal camino (sì, come nei quadri di Chagall, e vedremo che non è il solo a sparire, al bisogno, da un luogo chiuso come un folletto). Man mano, dopo aver errato per boschi europei, ospedali ungheresi dove guarisce miracolosamente, incontrato un falso Ben Gurion che arringa i sopravvissuti in un ostello per profughi, esser passato per la Grecia con dei disertori polacchi (sempre facendo prodigi — e qualche affare), raggiunge la "terra dell'eterna primavera", la Palestina.

Dire che siamo nel mondo del sogno è dire poco. Nel frattempo la sua bella moglie Stefa Pomerantz è rimasta al villaggio. Non ha paura dei tedeschi, perché non si sente tanto ebrea, si considera tutta, soltanto europea e "il pericolo è solo interiore". Capisce così poco che in quella situazione si è anche iscritta a un'associazione intitolata a Goethe. Studia come una matta, con i paraocchi, legge, anche se intorno portano via in vagoni blindati orfani ebrei. Si confronta con il vecchio filosofo Zajczik, scrive con lui un'ingenua lettera a Heidegger per chiedergli conto delle sue deludenti posizioni (si tratta di un ottimo ritratto della cecità di tanti intellettuali ebrei del Nord Europa in quegli anni!). Per la sua brillantezza e bellezza viene perfino invitata a una festa del governatore nazista dove appare un cavaliere che la porta via per mano verso la Russia del comunismo di cui Stefa diventa un'importante agente segreto (incontra Stalin in persona) e passa le sue giornate in un ufficio senza sedie, sdraiata su soffici tappeti, a decidere chi arrestare e quando.

Sembra di stare tra le nuvole. Ed anche la vita di Pomerantz in Palestina e poi Israele è aerea, a due metri da terra. Perché nonostante pensi di voler diventare un uomo nuovo e libero, un lavoratore abbronzato dei campi, dapprima si tiene distante da tutti facendo l'orologiaio a Tiberiade, sotto il sole cocente, poi sceglie il kibbutz dove di fatto il suo rapporto con la comunità è quasi nullo, mentre la musica della matematica e la matematica della musica nella più grande solitudine lo portano a grandi scoperte che presto scuoteranno il mondo. Questa la base da cui tutto parte, tutto scorre, perfino le spie sovietiche che tengono sott'occhio il genio matematico ex orologiaio mentre si avvicina la guerra. Chi le avrà mandate? Non è che l'amore e il progetto sionista si tengono insieme?

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