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La Repubblica Rassegna Stampa
14.03.2017 Israele e il miracolo del baseball: semifinalista ai mondiali
Analisi di Francesco Mimmo

Testata: La Repubblica
Data: 14 marzo 2017
Pagina: 53
Autore: Francesco Mimmo
Titolo: «Israele e la squadra inventata dal nulla: pazzi per il baseball, orgoglio e identità»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/03/29017, a pag. 53, con il titolo "Israele e la squadra inventata dal nulla: pazzi per il baseball, orgoglio e identità", l'analisi di Francesco Mimmo.

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La squadra di baseball israeliana

MAZZA, guantone, stella di David sul cappello. E una strana mascotte: un pupazzo con baffi e cappello nero. Israele è l’outsider del baseball, passato da Cenerentola a possibile semifinalista alla sua prima apparizione in una competizione mondiale. Quattro vittorie di fila, che hanno suscitato curiosità, poi interesse e passione sportiva e persino un dibattito su radici e eredità culturale tra Israele e Stati Uniti. Non senza polemiche. La squadra, infatti, è molto più di un outsider. Il baseball in Israele praticamente non esiste, i praticanti sono un migliaio e i campi solo tre. Era già una sorpresa che si fosse qualificata per la prima fase della World Baseball Classic. Ora, addirittura, spera nelle semifinali dopo aver battuto squadre blasonate come Corea del Sud, Taiwan, Olanda e soprattutto Cuba, potenza del baseball, che ha superato con un 4-1 nel mini- girone dei quarti di finale a Tokyo. Il 2016 dei miracoli sportivi è finito (Leicester, la promozione del Crotone, la Champions di volley a Casalmaggiore).

Israele è come la Giamaica del bob, scriveva la stampa americana dopo la prima vittoria. Come ha fatto, allora, la 41ª nazionale del ranking mondiale, data 200 a 1, ad andare così avanti? Intanto la World Baseball Classic non è il campionato mondiale ma una competizione internazionale di alto livello, alla quale molti dei migliori professionisti delle leghe americane non partecipano per paura di infortuni o disinteresse. Poi, a ben vedere, la nazionale di Israele non è composta da dilettanti allo sbaraglio. La maggior parte sono professionisti, con passaporto americano, che la federazione ha deciso di schierare alla sola condizione che potessero giustificare legami familiari anche molto lontani. Così Israele si è trovata a poter mandare in campo un lanciatore sotto contratto nella Major League Usa, un ex professionista con 15 anni di carriera in America, che aveva sì appeso il berretto al chiodo, ma solo pochi mesi prima di cominciare l’avventura. E diversi altri giocatori con carriere di tutto rispetto nelle leghe minori a stelle e strisce. C’è un solo giocatore con passaporto israeliano in squadra.

Anche l’allenatore, Jerry Weinstein, è americano. Nato nel ‘43 a Los Angeles da genitori immigrati ebrei, ha cominciato ad allenare negli anni Sessanta e ha accumulato un bel po’ di esperienza come coach nei college e nello staff tecnico della nazionale Usa. Proprio lui è l’animatore di questa spedizione: «Il nostro obiettivo è promuovere il baseball in Israele». Un obiettivo che sembrava decisamente lontano all’inizio del torneo. Le prime tre partite non sono neanche state trasmesse in tv. Il ministro dello Sport, Miri Regev, ha candidamente ammesso in un’intervista di non sapere neanche che Israele avesse una nazionale di baseball. Il premier Netanyahu, invece, ha mostrato subito attenzione con un tweet di complimenti. Ma lui ha vissuto a lungo negli Usa.

Un popolare commentatore sportivo aveva paragonato i giocatori agli sprinter con passaporto dei paesi arabi: mercenari. Per di più con la colpa di sottolineare stereotipi della cultura ebraica ormai lontani da un paese moderno come Israele. Poi sono arrivate le vittorie e qualcosa è cambiato nella percezione pubblica. La partita con Cuba è arrivata finalmente sugli schermi. L’attenzione mediatica è cresciuta, anche grazie ai giocatori. Due in particolare. Ty Kelly, terza base con una parentesi nei Mets, ha dichiarato di avere riscoperto le sue radici religiose e ha imparato qualche parole di ebraico. Cody Decker pare invece aver ereditato lo humour yiddish. È lui che si è inventato la mascotte “Mensch on a bench” (Mensch come l’uomo d’onore della tradizione ebraica, in panchina). Un pupazzo in abiti tradizionali. Una ditta ne ha prodotto uno a misura d’uomo che accompagna sempre la squadra – che gli offre vino e “gefillte fish”, piatto tradizionale della Pasqua, come portafortuna – e viaggia in aereo con i giocatori (sul volo da Seul a Tokyo le hostess hanno preteso che indossasse la cintura). Finora Mensch on the bench ha portato fortuna: ancora una vittoria e si vola alle semifinali di Los Angeles.

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