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fondazionecdf.it Rassegna Stampa
14.12.2011 Come l’industria della difesa israeliana può contribuire a salvare l’America
analisi di Arthur Herman

Testata: fondazionecdf.it
Data: 14 dicembre 2011
Pagina: 1
Autore: Arthur Herman
Titolo: «Come l’industria della difesa israeliana può contribuire a salvare l’America»

Riportiamo da FONDAZIONECDF.IT l'articolo di Arthur Herman dal titolo " Come l’industria della difesa israeliana può contribuire a salvare l’America ". pubblicato sul numero di dicembre 2011 di COMMENTARY.


                                                         Arthur Herman

Il kibbutz Sasa si trova a un miglio dal confine tra Israele e Libano. Fondato nel 1949, vi si trova la tomba del rabbino del secondo secolo Levi ben Sisi. Ospita piantagioni di alberi da frutto, una fattoria dove si producono latticini ed è composto da 210 membri. Kibbutz Sasa è anche il nome del maggior stabilimento della Plasan, una società che ha iniziato a produrre contenitori in plastica dura come cassonetti dell’immondizia nel 1985. Da quattro anni ormai i soldati americani guidano mezzi più sicuri in Iraq e Afghanistan grazie a Kibbutz Sasa e all’amministratore delegato della Plasan, Dani Ziv.

È stato Ziv che, negli anni ‘80, ha spinto la società a produrre giubbotti antiproiettile per soldati e polizia. Nel 1989, Plasan ottenne in suo primo contratto per fornire giubbotti antiproiettile alle Forze di Difesa Israeliane e, in seguito, corazzamenti per i loro mezzi. Allo scoppio delle guerre in Afghanistan e Iraq le ordinazioni sono salite alle stelle, specialmente quelle provenienti dagli Stati Uniti. I profitti di Plasan sono aumentati del 1500 percento, dai 23 milioni di dollari del 2003 ai 330 del 2007. Attualmente sono al di sopra dei 500 milioni e il 90% delle ordinazioni provengono dall’Europa e dagli Stati Uniti.

La Plasan è specializzata nella produzione di un composto plastico molto spesso che assicura la protezione balistica senza appesantire eccessivamente il mezzo. “Il loro lavoro è eccezionale”, dice a proposito della Plasan un alto funzionario dell’industria della difesa israeliana. “Convincere i militari americani dell’affidabilità della tua impresa non è cosa da poco. Fanno tutto da soli, senza aiuto di un ambasciatore o di un direttore generale del Mistero della Difesa”.

I mezzi corazzati resistenti alle mine e agli agguati (MRAPs) della Plasan sono stati utilizzati in Afghanistan fin dal 2009 e la compagnia privata Oshkosh ne ha ordinati altri 8800. Nel 2009 la Plasan ha aperto uno stabilimento a Bennington, nel Vermont, per realizzare il suo appalto americano; ma anche se i circa 350 lavoratori sono americani, la tecnologia è completamente israeliana.
Lo stesso discorso vale per un’azienda israeliana ancora più piccola, di nome Camero, con sede a Netanya. I suoi ingegneri si sono inventati un modo per utilizzare le trasmissioni wireless a banda larga per poter - letteralmente - vedere attraverso i muri e individuare uomini armati ed esplosivi dall’altra parte. Il Xaver 400 ha a malapena le dimensioni di un computer portatile ma, nella guerriglia urbana, sta cambiando gli equilibri in campo a favore di chi utilizza questa tecnologia, che sia un soldato delle Forze di Difesa Israeliane o un marine statunitense. Non a caso, nel dicembre 2010, il Dipartimento di Difesa è divenuto uno dei maggiori clienti di Camero.
Quello che sta accadendo a Plasan e Camero è parte di una rivoluzione silenziosa che sta investendo le imprese del settore della difesa di Stati Uniti e Israele. Dopo anni di dipendenza dal Pentagono in termini di tecnologia militare, ora l’industria della difesa israeliana si sta avvantaggiando rispetto alla rivale americana, ormai troppo regolamentata, imponente e lenta e gli Stati Uniti stanno diventando uno dei migliori clienti di Israele. Golia sta trovando rifugio dietro lo scudo di Davide.
La situazione è paradossale. Non si tratta semplicemente del fatto che l’America stia ora combattendo il tipo di guerre che Israele combatte da anni – su piccola scala, a bassa intensità, contro un inafferrabile nemico terrorista – e che quindi necessiti delle competenze e dell’equipaggiamento che Israele ha da offrire, compresi dispositivi a pilotaggio remoto come i droni senza pilota, un campo in cui Israele è arrivato in anticipo di circa10 anni. Allo stesso modo, la questione non si esaurisce nel fatto che, visto che le relazioni tra Stati Uniti e Israele si sono raffreddate durante la presidenza Obama, gli Israeliani siano sono resi conto che un settore tecnologico della difesa forte e indipendente può essere più rilevante per il futuro di Israele che affidarsi all’aiuto americano.
Il modo israeliano di fare affari con l’industria della difesa sta rimodellando il complesso militar-industriale. Più piccola, più agile e imprenditoriale, l’industria della difesa israeliana rappresenta una buona alternativa al modello del Pentagono. La crisi della spesa e del budget, che già stanno mettendo pressione al Pentagono, e la sicura riduzione della percentuale dell’economia americana destinata alla difesa nel decennio prossimo, renderanno sicuramente necessaria a breve una “rivoluzione negli affari militari”. Dovremo ottenere di più avendo molte meno risorse a disposizione. Israele sta indicando la strada da seguire.
Un buon esempio, riguardante una delle più costose tecnologie militari come i missili ad alta tecnologia, sono i “Rafael Advanced Systems”. Si tratta dei produttori israeliani del sistema di difesa missilistico Iron Dome, costruito per proteggere le città israeliane da colpi di mortaio, razzi e colpi d’artiglieria da 155 millimetri. Ogni unità Iron Dome spara da quattro a otto missili ed è equipaggiata con un “Battle Management computer system” progettato da un’altra azienda israeliana, la MPrest Systems. Si tratta di un sistema portatile in grado di funzionare in qualsiasi condizione atmosferica e con una portata di 70 chilometri.

Al Pentagono occorrerebbe più di un decennio per sviluppare e dispiegare un nuovo sistema come questo. Al contrario, il Ministero della Difesa ha assegnato l’appalto per l’Iron Dome a Rafael nel 2007, e entro marzo del 2009 il sistema era pronto per essere testato. Per il primo test di abbattimento si è dovuto aspettare fino a  luglio di quell’anno. Ulteriori test sono seguiti nel 2010 e entro marzo 2011 Iron Dome è stato dichiarato operativo ed è stato dispiegato in città vicino alla striscia di Gaza per proteggerle dagli attacchi di Hamas.

Per intercettare missili balistici più grandi, l’Industria Aerospaziale Israeliana (IAI) ha sviluppato, in collaborazione con gli Stati Uniti, il sistema antimissilistico Arrow, parte dell’Iniziativa di Difesa Strategica promossa da Ronald Reagan. L’accordo per costruire Arrow risale al 1989, il lancio di prova del primo missile, l’Arrow 1, si svolse nell’agosto del 1990 e meno di quattro anni dopo venne effettuato il primo test d’intercettamento.

Anche se iniziata come una collaborazione tra americani e israeliani, paradossalmente  l’interesse di Israele di sviluppare il progetto Arrow è stato dettato dal fallimento delle batterie antimissili Patriot – tutte realizzate dall’America – nell’intercettare gli attacchi con missili Scud durante la Prima Guerra del Golfo. Il progetto Arrow fa affidamento su un gruppo di aziende israeliane per procurarsi i componenti del sistema di intercettamento. Elta, una divisione della più grande azienda privata israeliana di armi, la Elbit Systems, fornisce il sistema di allarme radar Green Pine. Tadiran (un altro comparto della Elbit) funge da centro di comunicazione, controllo e comando. L’Industria Aerospaziale Israeliana ha inventato i controlli Hazelnut. Tutti insieme, hanno costruito uno dei più sofisticati sistemi di difesa al mondo. Nel 1995 l’Arrow 1 è stato sostituito dall’Arrow 2, ancora più veloce e letale, che, secondo il suo progettatore Dov Raviv, ha il 90% delle probabilità di abbattere un missile balistico ed è in grado di distinguere una testata da un falso.

L’Agenzia di Difesa missilistica del Pentagono, invece, si considera fortunata quando riesce ad abbattere un qualsiasi missile dal suo sistema con postazione a terra. Il primo test di intercettamento soddisfacente della versione americana dello Star Wars è avvenuto nell’agosto del 2005, con più di 10 anni di ritardo rispetto a quanto fatto da Israele. Ora Israele sta cercando di vendere Iron Dome negli Stati Uniti, dove il suo partner americano è proprio Raytheon, ovvero la stessa società che aveva sviluppato il Patriot.

Per decenni Israele è stato considerato il partner minore degli Stati Uniti, sotto ogni aspetto militare e strategico. Le aziende di difesa americane erano i leader indiscussi nello sviluppare armamenti moderni e sofisticati, mentre Israele si concentrava su produzioni più tradizionali, come armi leggere (come il classico Uzi) o armi adatte alle loro condizioni di battaglia uniche (come il carro armato Merkava). Il dispiegamento del missile Patriot nella Prima Guerra del Golfo ha rafforzato l’idea che Israele avesse bisogno della tecnologia militare e dell’aiuto americano per poter sopravvivere. Ora invece potrebbe essere la tecnologia di Israele, nella fattispecie Iron Dome e Arrow, a difendere le città americane.

Questa inversione dei ruoli ha inciso anche sull’attitudine statunitense rispetto al trasferimento di tecnologia tra i due alleati. Il generale Uzi Eilam, ex capo dell’agenzia israeliana di ricerca e sviluppo sulle armi (MAFAT), ricorda che quando arrivarono in Israele gli F-15 e gli F-16 dagli Stati Uniti, “arrivarono con sistemi tenuti sottochiave che non eravamo autorizzati a conoscere”. La regola era questa: gli americani avrebbero condiviso la loro tecnologia con Israele ma in base a quanto questo si sarebbe avvicinato al loro livello di progresso tecnico. Oggi il Pentagono sta accelerando il processo di cooperazione, almeno per evitare che i progressi israeliani li colgano impreparati.
È impressionante come il settore della difesa israeliano continui incessantemente a passare da una prova all’altra. In particolare per quanto riguarda il banco di prova di ogni forte industria della difesa: le vendite estere. Dieci anni fa Israele era al quindicesimo posto, nel 2007 ha superato il Regno Unito al quarto, dietro Stati Uniti, Russia e Francia e il giorno in cui prenderà il posto della Francia non è lontano.

Questo è un risultato considerevole per un paese di circa 6 milioni di persone, trattato a parole come uno stato paria da gran parte del mondo. “A parole” è l’espressione giusta se solo si pensa che in teoria la Turchia ha congelato le sue relazioni con Israele due anni fa, ma è ancora il miglior cliente della Elbit.

Chiaramente, ci vorrà molto tempo prima che l’industria della difesa americana, con le sue smisurate risorse pubbliche destinate a ricerca e sviluppo e il suo esercito di ingegneri, sia superata da quella israeliana. Inoltre i militari israeliani non utilizzano mezzi estremamente costosi come portaerei, velivoli stealth (quasi impercettibili ai radar), e sottomarini nucleari, che rappresentano la parte più consistente della spesa del Pentagono; né devono far fronte al dispiegamento globale che è invece richiesto agli americani. Inoltre Israele spende una quota molto maggiore del suo Pil in difesa (circa il 6,7%), e, avendo un esercito di leva, evita il problema dei costi del personale di alto livello che costituiscono la voce di spesa che cresce più velocemente delle nostre forze di volontari. Né si può negare che molte delle armi israeliane ad alta tecnologia che hanno avuto successo siano state realizzate grazie al contributo dell’America, che ha pagato una gran parte delle spese di ricerca e sviluppo, come ha fatto per esempio nel caso dell’Iron Dome e di Arrow. Ma quel denaro sembra sempre meno un modo per sostenere un alleato sotto tiro, e sempre più un investimento in sistemi da utilizzare in futuro per se stessi.

Il modo in cui l’industria della difesa israeliana, con una minima parte della nostra capitalizzazione e molti meno lavoratori e ingegneri, sia riuscita a far progressi in un momento in cui i nostri maggiori imprenditori nel settore della difesa sembrano invece subire una fase di stallo, fornisce alcune importanti lezioni ad un Pentagono paralizzato dall’eccedenza dei costi e dai budget in calo. Apprendere la lezione israeliana potrebbe fare la differenza tra costruire un esercito statunitense più agile e ridotto o votarsi al fallimento.
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Le compagnie di difesa israeliane devono il loro successo ad una combinazione tra fattori estrinseci ed intrinseci. Dover combattere per assicurarsi la sopravvivenza da sempre fa sì che Israele concentri le sue energie e i suoi sforzi. Che missili lanciati da terroristi cadano in quartieri abitati resta solo una remota possibilità negli Stati uniti, ma non in Israele. Qui c’è un margine di errore molto ridotto nel prendere decisioni importanti riguardo a quale tipo di armi sviluppare e in quali investire e ancora meno nel dilatare inutilmente i tempi per lo sviluppo di sistemi di armi che possono essere vitali per l’esistenza della nazionale.
Un altro vantaggio è dato dal fatto che teoricamente chiunque lavori per un’industria della difesa israeliana ha indossato un’uniforme. Come Dan Senor e Saul Singer sottolineano nel loro libro “Strat-Up Nation”, grazie alla leva obbligatoria le Forze di Difesa Israeliane – “in particolar modo le unità di élite di aeronautica, fanteria, intelligence e degli esperti di tecnologia” sono state la generazione dinamica di una miriade di compagnie tecnologiche israeliane. E l’esperienza nelle Forze di Difesa Israeliane ha anche condotto alcune delle migliori menti di Israele a progettare e sviluppare tecnologie militari.
È improbabile trovare un ingegnere della difesa o un dirigente che non abbia qualche esperienza sul campo di battaglia a cui attingere. “Sappiamo cosa significhi stare in un mezzo militare”, ha detto un dipendente della Plasan ad un reporter nel 2008, “come sia saltare su un ordigno o beccarsi una raffica”. Non è inusuale che un ingegnere di un’azienda della difesa richiamato nelle “reserve service” si trovi a controllare dei sistemi di armi che lui stesso ha progettato *.
Vi sono poi altre abitudini che vengono dall’esperienza fatta nelle Forze di Difesa Israeliane. La prima è il pregiudizio nei confronti della gerarchia. In netto contrasto con il Pentagono, giovani ufficiali godono di maggiori responsabilità e si sentono liberi di contestare i loro superiori. Come notano Senor e Singer, questo produce una catena di comando abbastanza flessibile da sapersi adattare a cambiamenti e opportunità inattese, che sia sul campo di battaglia o nella sala di consiglio.
La seconda è il pregiudizio nei confronti dell’improvvisazione. Teoricamente qualsiasi pezzo dell’equipaggiamento comprato dagli Stati Uniti, dai caccia F-16 agli elicotteri Blackhawk, passa attraverso una fase di adattamento da parte del personale e dell’equipaggio per essere conformato alle condizioni belliche israeliane. Quando questo avviene nell’esercito americano (come quando i soldati in Iraq hanno iniziato a blindare i loro Humvees), ne risultano solo confusione e panico. Ma l’idea che vi possano essere modifiche sul campo implica che gli ingegneri israeliani non devono preoccuparsi di creare un sistema di armi che preveda e anticipi qualsiasi eventualità. Sanno che chi li utilizzerà si farà carico di qualsiasi problema potrà sorgere strada facendo, il ché velocizza molto i tempi di progettazione e sviluppo e fornisce indicazioni importanti per future migliorie. Inoltre riduce le curve di apprendimento e fornisce opportunità inaspettate di fare di necessità virtù.
Un buon esempio è quello del Lavi negli anni ’80. L’aeronautica israeliana aveva deciso di costruire il primo caccia interamente suo, dopo aver modificato per anni aerei americani o francesi. Finanziato congiuntamente dai governi di Stati Uniti e Israele, prodotto dal gigante della difesa IAI e chiamato Lavi, l’aereo richiese quattro anni e bilioni di dollari per esser progettato, fino al 1987, quando il programma venne cancellato, in primo luogo perché il Pentagono si preoccupò di aver trovato un aereo che poteva competere con  il suo caccia più esportato, l’F-16.
L’annullamento del progetto ha avuto forti ripercussioni al Ministero della Difesa israeliano. Alcuni ritengono ancora oggi che sia stato un errore. Ma “il progetto ha orientato l’intero settore industriale verso la tecnologia all’avanguardia”, nota l’analista della difesa Yiftah Shapir. “Ancora oggi vendiamo i sottosistemi che furono sviluppati apposta per il Lavi” specialmente nell’avionica informatica (alcuni di essi sono nei veicoli aerotrasportati senza pilota o UAV, che Israele produce per clienti quali India, Cina e Turchia). In più, i 1500 ingegneri che hanno lavorato al sofisticato sistema Levi trovano velocemente lavoro in altre compagnie della difesa israeliane, portando con é la loro esperienza e la loro competenza.
In poche parole, quello che era sembrato un fallimento e un enorme spreco di denaro ad un Pentagono troppo avverso al rischio e ai suoi responsabili al Congresso è diventato il trampolino di lancio per enormi progressi, compreso, nel 1988, la realizzazione della prima rete satellitare israeliana nello spazio.
Il progetto Lavi e il lancio nello spazio hanno aperto la strada al successivo grande passo per l’industria della difesa israeliana, ovvero la sua riorganizzazione radicale negli anni ’90. La combinazione di ridimensionamento, deregolamentazione e privatizzazione hanno costretto i maggiori imprenditori nel settore della difesa a iniziare a pensare a nuovi modi di fare profitti e a guardare alla frontiera dell’alta tecnologia come ad un’opportunità per entrare nel mercato tra i grandi competitori internazionali, Stati Uniti compresi.
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Negli anni ’80 l’industria della difesa israeliana si è trovata ad essere eccessivamente grande, troppo regolamentata e troppo costosa, come il resto dell’economia nazionale. La fine della Guerra Fredda ha costretto però ad un cambiamento. Gli acquirenti stranieri apprezzavano i prodotti della difesa israeliana perché erano stati testati in battaglia contro i sistemi, di fabbricazione sovietica, utilizzati dai paesi arabi nemici di Israele. Con la fine della minaccia sovietica, questo vantaggio venne meno e le società israeliane videro le industrie americane di difesa, eccitate dal successo dell’operazione “Desert storm”, accaparrarsi quei contratti. 
Dal 1985 al 1995 la spesa di Israele per la difesa si è ridotta del 37%. Il calo globale della domanda era accompagnato dal calo della domanda interna, mentre una cultura corporativistica controproducente rendeva difficile per le maggiori aziende pubbliche adattarsi al nuovo contesto. Era chiaro che, se si voleva che Israele continuasse a progettare e produrre armi, sarebbe stato necessario un drastico cambiamento nell’atteggiamento delle imprese.
Le aziende più grandi dovettero ridurre la loro forza lavoro e massimizzare il loro rendimento; molte di quelle più piccole sparirono in un’ondata di fusioni. Elbit Systems divenne una grande impresa dopo aver inglobato rivali più ridotte nel campo dell’ alta tecnologia, come Elisra e Tadiran, e compagnie di vecchia data come Soltam Systems (fondata nel 1950), che produceva artiglieria e mortai.

Un gran numero di imprese pubbliche vennero privatizzate, misura che era parte di una più ampia trasformazione dell’economia israeliana in un modello meno regolamentato. La Rafael Advanced Systems, laboratorio di ricerca che lavorava per il Ministero della Difesa, diventò un’impresa privata; altre aziende pubbliche, come l’IAI, furono indotte a scorporare progetti commerciali dalle loro unità riguardanti la difesa, anche quando ricerca e sviluppo avevano avuto origine in quei comparti. Dopo alcune false partenze, la maggior parte di queste operazioni ebbe esito positivo e, se le esportazioni del settore della difesa aumentarono, le esportazioni commerciali degli spin-off aumentarono ancora più velocemente.
Questa è stata l’altra dimensione della riorganizzazione degli anni ’90. Era ormai chiaro che mentre le compagnie di difesa israeliane avrebbero continuato a produrre specifici sistemi di armi adatti al contesto nazionale, esistevano concrete possibilità gi guadagno anche nel mercato globale, specialmente nel campo dell’alta tecnologia, riequipaggiando e ammodernando le vecchie piattaforme costruite dai giganti della Guerra Fredda, Russia e Stati Uniti. Diversificare gli acquirenti, oltre alle Forze di Difesa Israeliane, non avrebbe solo abbassato i costi di produzione e dato vita ad economie di scala, ma avrebbe anche stimolato l’innovazione tecnologica e fornito più occasioni di vendere i prodotti israeliani.
Il risultato fu un costante aumento delle esportazioni, cominciato nel 2000 e giunto all’apice nel 2007, quando le armi israeliane vendute all’estero hanno superato i 4 bilioni di dollari. Le entrate della Elbit, il produttore dell’Arrow, crebbero del 38% in quel solo anno. Nel 2009, le esportazioni israeliane della settore della difesa hanno raggiunto i 6,9 bilioni di dollari, nel 2010, 7,2 bilioni di dollari. Considerando che il budget destinato alla difesa è stato ridotto ovunque nel 2011, questi numeri sembrano difficili da superare, ma il metodo israeliano di fare affari è ormai ben consolidato.
La riorganizzazione non è certo stata priva di costi. In fin dei conti, i contribuenti han dovuto tirar fuori circa 3 bilioni, l’equivalente di un terzo del budget per la difesa nel 2001, per pagare la riorganizzazione. Ma l’investimento ha portato i suoi frutti. Come sottolineato da Giora Eiland, uno dei consiglieri alla sicurezza nazionale di Ariel Sharon, Israele ha trovato il giusto equilibrio tra il sostegno e la supervisione del governo da un lato e la creatività e l’intraprendenza private, dall’altro incoraggiando la ricerca e lo sviluppo indipendenti. Quando il paese necessita di grandi piattaforme convenzionali come aerei, elicotteri o sottomarini, li compra all’estero e poi li modifica per adattarli ai sistemi delle Forze di Difesa Israeliane e al campo di battaglia, mentre quando hanno bisogno di armamenti altamente tecnologici, Israele li sviluppa autonomamente, cercando poi di commercializzarli altrove.
Questo ha causato alcune frizioni tra Israele e il suo grande fratello. Gli Stati Uniti guardano all’avanzata del Davide Israele con preoccupazione, specialmente poiché le vendite significano trasferimenti consistenti di tecnologia. Quando Israele ha tentato di vendere quattro sistemi di allerta Phalcon da 250 milioni alla Cina, il Pentagono e il Congresso hanno bloccato la vendita. Quando ha acconsentito ad ammodernare gli UAV che aveva venduto a Pechino negli anni ’90, gli Stati Uniti si sono vendicati riducendo la partecipazione di Israele al programma per la realizzazione degli F-35.
D’altro canto, le compagnie della difesa americane vedono sempre più la cooperazione con Israele come la chiave del loro stesso futuro. Oltre all’Iron Dome, Raytheon si è accordato con Rafael Advanced Systems per lo sviluppo di un altro missile antimissile, il cosiddetto Magic Wand (“Bacchetta Magica”) o David’s Sling (“Fionda di Davide”). Il Magic Wand, intercettore in due fasi, è progettato per i razzi a lunga gittata e i missili da crociera posseduti da Hezbollah. Per Raytheon, la tecnologia israeliana è utile per sviluppare autonomamente sistemi futuri, mentre per Rafael l’accordo con Raytheon è un modo per ottenere fondi americani. Loro posseggono già  la tecnologia, è del denaro e degli acquirenti che hanno bisogno.
Uno di questi clienti sono proprio gli Stati Uniti. L’Elbit fornisce l’80% degli UAV delle Forze di Difesa Israeliane e nel mercato globale è seconda solo agli Stati Uniti nel mercato globale per la vendita dei cosiddetti droni. Israele non ha spazio nel mercato statunitense, o almeno non ancora. “Non so perché non importino UAV”, dice l’amministratore delego di Elbit Joseph Ackerman, riferendosi, chiaramente, ai suoi.
Parrebbe una buona domanda. E siccome nell’ultimo decennio gli Stati Uniti sono diventati il maggiore acquirente d’armi da Israele e sono in via di realizzazione sistemi come Iron Dome e David’s Sling, sicuramente i droni seguiranno tra poco.
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Il futuro della sicurezza Americana sarà dunque “Made in Israele”? In un certo senso, lo è già. Allo stabilimento della Plasan nel Kibbutz Sasa, le entrate sono coperte con copie dei biglietti di ringraziamento dai soldati americani. Uno di loro è firmato da Brian, un sergente che ha servito l’esercito in Afghanistan e che scrive che la blindatura della Plasan lo ha salvato da una pallottola che avrebbe colpito la sua testa, se avesse trapassato la porta.
“I soldati americani vengono alle nostre dimostrazioni e mi dicono che non vogliono stare in nessun mezzo che non sia protetto dalla blindatura della Plasan”, dice un dipendente della Plasan. Finora non c’è un solo soldato che sia stato ucciso dal fuoco mentre si trovava in un mezzo corazzato da noi”.
L’idea che gli americani siano protetti da Israele, tuttavia, potrebbe avere applicazioni maggiori che quelle che riguardano la blindatura dei mezzi o la difesa antimissilistica, o sistemi di armi in generale. Si potrebbe estendere in generale al modo intero in cui le imprese israeliane che operano  in ambito militare si rivelano molto più proficue e con un corpo di sorveglianza del Ministero della Difesa composto da meno di 300 persone. Il nostro Pentagono, al contrario, si basa su 30000 burocrati che fanno lo stesso lavoro di supervisione.
Certamente le aziende israeliane traggono vantaggio dalla loro specializzazione di nicchia e sul settore dell’alta tecnologia, con la sua curva dello sviluppo relativamente dispendiosa ma bassi costi di produzione, nonché dalla capacità di evitare piattaforme troppo costose. Ma qualcuno osa mettere in dubbio che se a Dani Ziv o a un altro imprenditore della difesa israeliana venisse chiesto di costruire una portaerei di ultima generazione, verrebbe a costare molto meno di 1,3 bilioni di dollari [una portaerei costa molto di più, ndr] e sarebbe consegnata molto più velocemente? Con i costi finali di una nostra flotta di F-35 che si avvicinano a 1 trilione, questa diventa una questione estremamente rilevante.
Mentre il numero di burocrati del Pentagono continua ad aumentare, quello di studenti americani laureati in ingegneria sta scendendo a meno del 5% del totale mondiale (in Cina se ne laurea invece più della metà). Attualmente le imprese leader nel settore della difesa spendono più del doppio in avvocati che in ricerca. [Incredibile, no? Ndr] C’è una buona possibilità che nel prossimo decennio, nel caso in cui venisse chiesto loro di armare l’America per la sua prossima sfida strategica così come fecero negli anni ’80 e nuovamente negli anni ’90, le impresse statunitensi sarebbero incapaci di farlo. È tempo per il Pentagono e per l’industria della difesa americana di sviluppare un nuovo modo di fare affari e devono farlo prendendo a modello Israele.

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Note
* A migliorare il processo è l’unità Talpiot del Ministero della Difesa israeliano, che si rivolge a giovani molto talentuosi, alcuni quando ancora frequentano le scuole superiori, per farli esercitare sia in alte tecnologie che in scienze militari e nella connessione tra le due dimensioni, prima che entrino nelle Forze di Difesa Israeliane. Talpiot costituisce un “gruppo ineguagliato ovunque nel mondo,” - scrive George Gilder in “The Israel Test” – con “sistemi di progettazione di armi fatti da studenti 10 anni prima di andare all’università” e con i suoi ex allievi in servizio che costituiscono una riserva di talenti senza precedenti per le aziende israeliane che operano nel settore della difesa.

L’autore
Arthur Herman, ha insegnato storia alla George Mason University e alla Georgetown University, il suo libro più recente è “Gandhi and Churchill: The Epic Rivalry that Destroyed an Empire and Forged Our Age” (Bantam Books). Il suo saggio “Who Owns the Vietnam War?” è apparso nel dicembre del 2007.

Traduzione a cura di Valentina Viglione

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