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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.11.2017 Caso Abu Omar: secondo l'ex agente Cia l'Italia sapeva
Analisi di Giovanni Bianconi

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 novembre 2017
Pagina: 19
Autore: Giovanni Bianconi
Titolo: «'Il sequestro Abu Omar non si poteva organizzare senza coinvolgere l’Italia'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/11/2017, a pag. 19, con il titolo "Il sequestro Abu Omar non si poteva organizzare senza coinvolgere l’Italia", l'analisi di Giovanni Bianconi.

Giusto è stato l'arresto di Abu Omar, rapito da agenti della Cia a Milano nel 2003. Non c'è motivo per non credere alle parole dell'ex agente Cia Sabrina De Sousa, che parla di collaborazione da parte dell'Italia nell'operazione che condusse all'arresto. La lotta al terrorismo islamico deve avvalersi della collaborazione dei Paesi per essere efficace.

Ecco l'articolo:

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Giovanni Bianconi

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Abu Omar

Da funzionaria della Cia complice del sequestro di Abu Omar a volontaria in una casa famiglia romana per bambini disagiati; dal mondo misterioso delle spie a quello meno affascinante dei reclusi, con tre anni di pena da scontare ai servizi sociali in virtù di un indulto e una grazia presidenziale che hanno abbattuto l’iniziale condanna a sette anni. Sabrina De Sousa - sessantaduenne cittadina statunitense e portoghese nata a Bombay da madre indiana, con un passato da agente segreto in Italia - è l’unica dei venticinque diplomatici americani sotto copertura colpevoli del rapimento dell’imam egiziano, avvenuto a Milano nel 2003, che sta pagando il conto con la giustizia. L’altro ieri il giudice ha dato il via libera all’affidamento in prova che dovrebbe concludere una brutta storia nella quale la donna si sente, in qualche modo, una vittima collaterale. «L’unica mia attività in quella vicenda - racconta De Sousa - è stata aver partecipato a una riunione con funzioni di interprete tra uomini della Cia e del Sismi, il servizio segreto militare italiano, in cui si discusse di extraordinary rendition. Ma solo in termini generali. Senza nomi né indicazioni concrete. Avvenne al Consolato di Milano, dove io ero stata trasferita da un anno».

Gli americani chiedevano l’appoggio degli italiani per portare via dei sospetti terroristi come Abu Omar, nella «sporca guerra» cominciata con l’attacco alle due torri dell’11 settembre 2001. «Nel giorno in cui è avvenuto il sequestro, a febbraio del 2003, io ero fuori città, in settimana bianca, e quando sono tornata mi hanno detto che c’era stata un’operazione andata a buon fine, niente altro. Poi io sono rientrata negli Usa e non ho saputo più nulla fino all’inchiesta della magistratura italiana». All’epoca non c’era altro da dire né da chiedere: «Un musulmano pericoloso, che stava progettando un attentato a uno scuola-bus in Italia, era stato prelevato e portato via per essere interrogato. Solo dopo abbiamo saputo che non era vero, come hanno ammesso le stesse autorità egiziane che l’hanno torturato, e oggi Abu Omar scrive tweet di solidarietà in mio favore».

Questa, in sintesi, la versione di Sabrina De Sousa. Che si sofferma anche sui coinvolgimenti italiani nel sequestro, coperto da un segreto di Stato che ha cancellato le condanne in appello all’ex capo del Sismi Nicolò Pollari e ad altri funzionari del Servizio. «Secondo il nostro capo-centro Jeff Castelli (condannato a 7 anni di carcere, ma l’Italia non ne ha mai chiesto l’estradizione, ndr) Pollari era d’accordo, mentre lui ha detto di no, ma senza poterlo dimostrare per via del segreto di Stato confermato dal governo», racconta oggi De Sousa. Che aggiunge: «Io non so che cosa sia accaduto, ma so per certo che un’operazione come quella su Abu Omar in un Paese alleato come l’Italia non si può portare a termine senza l’approvazione e il coinvolgimento delle autorità italiane». Ma nella versione dell’ex agente segreto che ufficialmente svolgeva il compito di seconda segretaria d’ambasciata a Roma prima di essere spostata a Milano, mentre in realtà collaborava allo scambio di informazioni antiterrorismo «e ad operazioni di cui non posso parlare», c’è anche altro: «Se gli agenti della Cia hanno agito lasciando tracce evidenti come le carte di credito usate negli alberghi milanesi nei giorni del sequestro, lo hanno fatto non perché sono dei pasticcioni, come s’è detto in America sotto l’amministrazione Obama, ma perché convinti che in Italia non sarebbe successo niente dal momento che il vostro governo era d’accordo. Quella è gente esperta; a Beirut o altrove hanno fatto operazioni di cui non s’è mai saputo nulla. Se in Italia hanno lasciato tracce è perché c’era la sicurezza che potevano muoversi senza subire conseguenze. In ogni caso hanno usato dei nomi falsi, di copertura: 19 dei 25 condannati sono di persone che voi non sapete in realtà chi siano; dietro quei nomi ci sono persone sconosciute all’Italia».

Pur essendo l’unica condannata che sta scontando una pena, Sabrina De Sousa non ce l’ha con la magistratura italiana, bensì con i suoi due Paesi, Usa e Portogallo: «Io mi sento tradita dagli Stati Uniti, mi sono dovuta dimettere dalla Cia per poter andare a trovare mia madre malata in India, altrimenti avrei dovuto rispettare l’ordine di non uscire dal Paese; per me gli Usa non hanno chiesto l’immunità diplomatica e nemmeno la grazia parziale o totale sollecitata per altri, l’ho dovuta chiedere da sola. E quando sono stata prima arrestata e poi bloccata in Portogallo, il mio avvocato portoghese mi ha detto che un alto ufficiale dei servizi locali s’era proposto di farmi rientrare clandestinamente negli Usa. Ma io non ho voluto, perché preferisco chiudere la questione legale e tornare una cittadina libera».

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