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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.08.2017 Le proposte di Ehud Barak per Israele
Il ritratto di Davide Frattini

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 agosto 2017
Pagina: 16
Autore: Davide Frattini
Titolo: «La sfida del 'vecchio' Barak: 'Israele in mano a estremisti Ma posso salvarlo di nuovo'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/08/2017, a pag. 16, con il titolo "La sfida del 'vecchio' Barak: 'Israele in mano a estremisti. Ma posso salvarlo di nuovo' " il commento di Davide Frattini.

Il ritratto di Ehud Barak ad opera di Davide Frattini non risparmia critiche dure a Benjamin Netanyahu. Lo pubblichiamo, come facciamo sempre con analoghi articoli di e su politici israeliani che compaiono sui quotidiani italiani.  La nostra opinione su Netanyahu è nota, differisce completamente da quella di Barak.

Ecco l'articolo:

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Davide Frattini

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Ehud Barak

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Il Premier d'Israele

 

 

Sfoggiando la barba hipster che l’esercito di cui è il soldato più decorato proibisce di portare alle giovani leve, Ehud Barak da un anno e mezzo appare agli israeliani in video girati da solo e pubblicati sulla sua pagina Facebook. Da leader in pensione — e come scrive nel profilo personale «padre di tre figlie, quindi femminista» — riproduce in stile amatoriale i discorsi alla nazione di quando era premier (e ministro della Difesa, degli Esteri, capo di Stato Maggiore) per rivolgersi a chi il potere lo detiene ancora, da tanto tempo: Benjamin Netanyahu ha già totalizzato undici anni da capo del governo. Non un giorno di più, dovesse dipendere da Barak. Asceso dalle casette del kibbutz Mishmar HaSharon ai grattacieli del lusso sopra Tel Aviv, si è lasciato dietro le macerie del partito laburista e un titolo poco gratificante rispetto agli altri nel suo curriculum zeppo di medaglie: il politico meno amato dagli israeliani.

Eppure a 75 anni Barak sembra convinto di poter contribuire a sconfiggere Netanyahu — è l’unico a esserci riuscito già una volta nelle elezioni del 1999 — e a riportare la sinistra (traslocata al centro) alla guida del Paese. La considera una missione vitale come i raid che pianificava nella Sayeret Matkal, la più speciale tra le forze speciali: è da allora che conosce Netanyahu, era il suo comandante, è da allora che lo chiama con il soprannome. Gli concede: «Bibi è intelligente, preparato, riflessivo, efficiente, sa identificare i problemi e come andrebbero risolti». Seduto nella saletta per gli ospiti di questo palazzo vicino alla piazza dove Yitzhak Rabin è stato assassinato e assieme a lui gli accordi di pace che aveva firmato con i palestinesi, da stratega illustra la situazione geopolitica di Israele: «Resta riassunta nella mia formula “villa in mezzo alla giungla”. Siamo una potenza economica e militare, la nazione più forte da Bengasi a Teheran. Le prospettive immediate sono buone, forse troppo. La gente rischia di illudersi che non ci siano pericoli: la sera va all’opera, l’unico problema dell’aeroporto Ben Gurion sono le lunghe code perché tutti viaggiano, al Nasdaq sono quotate più società israeliane che di qualunque altro Paese. Quando mettiamo un piede fuori dalla villa, non possiamo esitare o verremo sopraffatti. Siamo al centro del tornado che sta travolgendo il mondo arabo, il Medio Oriente rimane un territorio dove non esiste pietà per i deboli: non ti danno una seconda opportunità, se non sai difenderti». Fino a qui Netanyahu potrebbe sottoscrivere l’analisi di quello che considerava un amico (gli ha affidato il ministero della Difesa tra il 2009 e il 2013) e che adesso disprezza come «il vecchio uomo con una nuova barba».

La differenza di visione sta nelle risposte da dare alle minacce. Anche perché — ha proclamato Barak nei suoi discorsi — «questo governo ha hitlerizzato tutte le emergenze regionali, smerciate come rischi per la nostra sopravvivenza. Così le decisioni sono guidate dal pessimismo, dalla passività, dalla paralisi. Un’ideologia fanatica e radicale ha preso in ostaggio la destra, è un ultranazionalismo oscuro». Continua: «Ormai è evidente che il progetto degli estremisti si sta imponendo. Per loro la soluzione dei due Stati è morta, i palestinesi potranno godere di una certa autonomia in una nazione che si estende dal Giordano al Mediterraneo. È inevitabile che un’entità di questo tipo diventi negli anni o non ebraica o non democratica».

A questa dottrina Barak vuole contrapporre «un nazionalismo orgoglioso» ed è convinto che chi l’appoggia possa vincerci le elezioni: «È la strada per salvare l’ideale sionista. Israele deve — ne ha la forza — separarsi dai palestinesi con un processo graduale. Il nostro esercito manterrà una presenza fino a quando non ci sarà un accordo reciproco e con garanzie, lo Stato palestinese sarà demilitarizzato, i grandi blocchi di insediamenti resteranno israeliani. L’ultradestra sfrutta la sicurezza come una scusa, sostiene che inglobare i territori arabi sia la nostra salvezza. Se prendessimo tutti gli ex capi del Mossad, dei servizi segreti interni, i capi di Stato maggiore, i generali ancora in vita e li chiudessimo in una stanza, il 99 per cento direbbe che il Paese è più difendibile con il mio piano».

Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, telefonare: 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@corriere.it

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