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Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.07.2017 Muore a 90 anni Simone Veil
Stefano Montefiori ne ripercorre la vita. Segue un brano dalla sua autobiografia

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 luglio 2017
Pagina: 38
Autore: Stefano Montefiori
Titolo: «Simone Veil, un'Europa con il cuore»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/07/2017, a pag.38, con il titolo "Simone Veil, un'Europa con il cuore", l'articolo di Stefano Montefiori sulla morte di Simone Veil.
Segue un brano della autobiografia "Una vita" (Fazi Editore) - da leggere per l'analisi sulla Shoah- come si evince dal giudizio sui bombardamenti dei campi di sterminio. Lo pubblichiamo dopo l'articolo di Montefiori.

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Simone Veil                           Stefano Montefiori                                     

Simone Jacob (Veil è il suo cognome da sposata), scomparsa ieri a Parigi, avrebbe compiuto 90 anni il prossimo 13 luglio, essendo nata a Nizza nel 1927. Sopravvisse alla deportazione nei campi di sterminio nazista • Entrò in magistratura e fu direttrice dell'amministrazione carceraria francese, quindi ministro • Nel 1979 guidò la lista del partito centrista Udf alle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo e venne eletta presidente dell'assemblea, incarico che conservò fino al gennaio 1982 • Nel 2008 fu eletta all'Académie française al primo turno, con 22 voti su 29 (5 schede bianche e 2 nulle)

Stefano Montefiori: "Simone Veil, un'Europa con il cuore"

Simone Veil raccontava di un'infanzia felice, a Nizza, anche se la crisi del 1929 aveva colpito duramente la famiglia, costretta a lasciare la grande casa borghese per un piccolo appartamento senza riscaldamento in un quartiere popolare. «Mio padre architetto riceveva pochi incarichi e mia madre casalinga doveva stare molto attenta ai soldi. Faceva una cosa che ora credo non si usi più, mostrava a mio padre tutti i conti alla fine del mese, centesimo per centesimo. Per noi bambini era triste vederla combattere con le ristrettezze e con il controllo del marito, e poi lei imbrogliava: ogni tanto voleva comprarci qualche caramella, allora metteva nella lista delle cose un po' più care come il burro, per poterci viziare di nascosto. Noi non capivamo perché nostro padre, una persona così intelligente, la costringesse a quell'umiliazione. Ma era solo l'inizio della discesa, il peggio doveva arrivare». Una delle donne più amate e rispettate di Francia, Simone Veil, promotrice nel 1974 della legge che legalizzava l'aborto, si è spenta ieri a 89 anni. La sua vita straordinaria, che l'ha portata a diventare più volte ministra e prima donna presidente del Parlamento europeo, può in parte essere letta alla luce di quel che accadeva da bambina in quel piccolo appartamento di rue Quvier. Il padre André Jacob, quando aveva sposato Yvonne, aveva subito chiesto alla moglie di abbandonare gli studi di chimica per dedicarsi alla famiglia. «È stato il suo grande rimpianto, nostra madre non faceva che ripeterlo a noi tre sorelle: quando sarete grandi continuate a studiare, e trovatevi un bel lavoro». Simone è riuscita a essere all'altezza delle aspettative della madre, che però non ha potuto conoscere i suoi successi. I Jacob erano ebrei, Simone venne fermata per strada a Nizza e l'agente della Gestapo si accorse subito che i suoi documenti erano falsi. Lei cercò di avvisare i famigliari ma vennero tutti arrestati e deportati nei campi di concentramento nazisti (tranne la sorella Denise, che combattè nella Resistenza). Il padre André e il fratello Jean furono condotti in Lituania sul tristemente celebre convoglio 73, l'unico diretto da Drancy verso i Paesi baltici, con a bordo solo uomini. Simone, la madre Yvonne e la sorella Madeleine vennero rinchiuse a Auschwitz e poi costrette a fare la «marcia della morte» fino a Bergen-Belsen, dove Yvonne morì di tifo. Nel documentario di 10 anni fa Simone Veil, la legge di una donna, la si vede commuoversi al ricordo della madre, «che era una persona buona, troppo per riuscire a sopravvivere al Lager. Il suo istinto era aiutare gli altri, più che mettersi in salvo». Simone, numero 78651 tatuato sul braccio, ha conosciuto il Male, ma è riuscita a sopravvivere conservando una dolcezza e una intelligenza che l'hanno resa, finita la guerra, irresistibile. Tornata in Francia il 23 maggio 1945, si iscrive alla facoltà di Diritto e a Sciences Po, dove incontra il futuro marito Antoine Veil, ispettore delle finanze e imprenditore. Avranno tre figli, molti nipoti, e un ménage famigliare opposto rispetto a quello dei genitori. «Anche ad Antoine — ha raccontato una volta Simone Veil — sarebbe piaciuto fare politica ma alla fine sono io a ricoprire le maggiori responsabilità. Lui lo accetta e gliene sono molto grata, perché non deve essere facile. Chiede solo di essere informato su tutto, è molto curioso, e io gli parlo con piacere del mio lavoro». Nel 1956 Simone Veil vince il concorso in magistratura e qualche anno dopo diventa direttrice dell'amministrazione penitenziaria. La donna che ha conosciuto la prigionia nei campi nazisti si dedica a migliorare le condizioni di vita dei detenuti («non si tratta di lassismo, ma di rispetto della dignità umana») e ottiene poi il trasferimento in Francia degli indipendentisti algerini che in patria rischiavano la vendetta degli estremisti francesi dell'Oas. Jacques Chirac, primo ministro del presidente Valéry Giscard d'Estaing, nel
19?4 la chiama al governo come ministra centrista della Sanità, e lei intraprende la missione che la consegnerà alla storia. Il 26 novembre, davanti a un'Assemblea nazionale composta al 95% da uomini, decide di presentare il progetto di legge per rendere legale l'interruzione volontaria di gravidanza. «Non possiamo più chiudere gli occhi sui 300 mila aborti clandestini che, ogni anno, mutilano le donne di questo Paese, si fanno beffe delle nostre leggi e umiliano le donne che vi fanno ricorso». La reazione non è incoraggiante, molti deputati la trattano da sgualdrina, il premier Chirac non la intralcia, ma neppure la sostiene davvero, perché «in fondo le donne sono sempre riuscite a cavarsela in qualche modo», che è appunto il cuore del problema. Sotto casa della ministra scampata ai nazisti appaiono le scritte Veil SS e l'auto del marito viene ricoperta di svastiche. Lei, ovviamente, va avanti: il 17 gennaio 1975 la «legge Veil» entra in vigore. L'altro grande momento della sua carriera sarà, nel 1979, la vittoria nelle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo del quale diventa presidente, prima volta di una donna. «Possa il suo esempio ispirare i nostri compatrioti, che troveranno in lei il meglio della Francia», ha detto il presidente Emmanuel Macron. Molti chiedono che Simone Veil venga accolta nel Panthéon, dove riposano i grandi, accanto a Victor Hugo e Emile Zola. Ma Simone Veil è «immortale» già dal 18 marzo 2010, quando è entrata all'Académie Française. Allora, come vuole il rito, indossò l'uniforme verde e la spada, con incisi i simboli da lei scelti per riassumere una vita intera: il numero 78651, Liberté, Egalité, Fraternite, «Uniti nella diversità» che è il motto dell'Europa, e un volto femminile che sorride (la madre, e tutte le donne per le quali ha combattuto).

Simone Veil: "Bombardare i Lager? polemica inutile"

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 (Il brano è tratto da «Una vita», le memorie di Simone Veil pubblicate in Francia nel 2007 e in Italia da Fazi nel 2010.)

Gli Alleati avrebbero dovuto bombardare i campi? Alla fine delle ostilità, si è discusso molto su questo problema. A volte ho avuto l'impressione che alcuni intellettuali si impegnassero più ad additare l'astensione «colpevole» di Roosevelt e Churchill che a denunciare gli onori dei campi di concentramento nazisti. Nel criticare le scelte strategiche degli Alleati è preferibile impiegare una certa ponderatezza, piuttosto che giudizi perentori. Malgrado i numerosi argomenti avanzati in favore dei bombardamenti che avrebbero dovuto distruggere le camere a gas, non posso fare a meno di nutrire delle riserve. Quando gli Alleati tentarono un'operazione del genere, ad Auschwitz, non ottennero granché. Mia sorella Denise, otto giorni prima della fine dei combattimenti, a Mauthausen si trovò coinvolta in un attacco aereo a sorpresa. Quel giorno, insieme ad altre sette compagne, stava sgomberando le rotaie del treno, devastate da un bombardamento precedente. Non avendo avuto il tempo di mettersi al riparo, cinque di loro morirono. Quei bombardamenti, dunque, hanno avuto il doppio svantaggio di essere inefficaci e crudeli. Inefficaci perché non hanno mai spaventato i responsabili dei campi, crudeli perché alla fine hanno ucciso più deportati che nazisti. In conclusione, mi sembra che le polemiche su questo argomento servano solo a nutrire i falsi dibattiti di cui tante persone si mostrano avide quando gli eventi sono passati, la discussione non costa niente ed è priva di rischi. Per quanto mi riguarda, penso che gli Alleati abbiano fatto bene ad avere come priorità assoluta la conclusione delle ostilità. Se si fossero diffuse le notizie riguardo ai campi, l'opinione pubblica avrebbe esercitato una tale pressione per farli liberare che l'avanzata degli eserciti sugli altri fronti, già difficile, avrebbe rischiato di esserne ritardata. I servizi segreti erano informati delle ricerche tedesche in materia di nuove armi. Nessuno stato maggiore poteva rischiare di far differire il crollo del Reich. Le autorità alleate optarono dunque per il silenzio e l'efficacia. Comunque ciò non toglie che negli Stati Uniti i più informati sapevano cosa stava accadendo nei campi, e che la comunità ebraica americana non disse una parola, senza dubbio nel timore di un afflusso smisurato di rifugiati. Come non condivido i giudizi negativi sul silenzio colpevole degli Alleati, non condivido il masochismo di alcuni intellettuali, come Hannah Arendt, sulla responsabilità collettiva e la banalità del male. Un tale pessimismo non mi piace. Anzi, sarei portata a vederci un comodo gioco di prestigio: dire che tutti sono colpevoli equivale a dire che non lo è nessuno. (traduzione di Francesca Minutiello)

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