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Panorama Rassegna Stampa
12.03.2008 "Pace dal basso", non sarà un'illusione ?
una domanda che Giovanni Porzio avrebbe dovuto porsi

Testata: Panorama
Data: 12 marzo 2008
Pagina: 0
Autore: Giovanni Porzio
Titolo: «Medioriente, gli irriducibili della pace. Nonostante tutto»

Jenin, tra le altre, è uno dei luoghi-palcoscenico del reportage di Giovanni Porzio pubblicato nell'ultimo numero di PANORAMA.
Ci racconta qualcosa che, in parte, abbiamo sempre saputo: che esista una minoranza di israeliani e di cittadini cisgiordani che credono, a torto purtroppo, che la 'pace' (assenza di violenza o sospensione di violenza, chissà?) sia un bene pubblico ricostruibile dal basso.


Porzio ci propone, in buona fede crediamo, un reportage un poco buonista.
Proporre Khalid Mahamid, avvocato palestinese, fondatore del primo museo arabo che non nega l'esistenza della Shoah, affiancandola alla 'naqba', ovvero 'il disastro' connesso alla nascita di Israele, non ci pare un grande esempio di pace dal basso.

Pasolini dovrebbe essere riletto per ricordarci che nessuno Stato è nato bene. Che è esistito sempre qualcuno che ha sopportato il prezzo della nascita di un'entità statuale.

Dovremmo ricordare che sono state proprio le persecuzioni inflitte in Europa a dimostrare agli ebrei  l'unico modo che hanno  per difendersi è  avere anch'essi uno Stato

Non crediamo ci sia spazio per uno Stato israelo-palestinese. Gli arabi con cittadinanaza israeliana  spesso si auto-discriminano. Si chiudono indiscutibilmente nel fiero mutismo di chi rifiuta qualsiasi forma di apertura verso l'altro.
Negano le responsabilità di chi ha governato il processo di pace da parte palestinese.
Non capiscono e mal interpretano il 'di male in peggio' che li affligge.
Il problema sono sempre gli israeliani, a parer palestinese.


A Porzio vorremo opporre una semplice obiezione:  passare il messaggio che basti un ambulatorio specializzato, un teatro di periferia, e una radio 'libera' che evoca un'apartheid palestinese per mano israeliana che semplicemente non esiste, per risolvere un secolare problema di riconoscimento reciproco tra due o più parti, ci sembra quantomeno 'naive'. 

La vita di Maria Amin, 6 anni, è appesa al respiratore agganciato alla sedia a rotelle con cui si sposta nei corridoi del reparto di riabilitazione dell’ospedale Alyn di Gerusalemme. Era il 20 maggio 2006, un sabato, quando a Gaza il missile sparato da un Apache contro un dirigente della jihad islamica investì l’auto su cui viaggiava uccidendo sua madre, la nonna e il fratellino di 7 anni. Maria, paralizzata dal collo in giù, non potrebbe farcela senza l’aiuto degli israeliani. Senza Dalia, la volontaria che l’ha «praticamente adottata». Senza i medici e i fisioterapisti dell’unico centro specializzato del Medio Oriente in grado di accudirla. E senza l’assistenza gratuita dell’avvocato Adi Lustigman, che si è appellata alla corte suprema per costringere il governo a finanziare le cure indispensabili alla sopravvivenza della bambina palestinese.
Quella di Maria è una piccola storia nel tragico scenario del conflitto arabo-israeliano. Non servirà a bloccare la costruzione delle colonie e del muro nei territori occupati, a fermare la pioggia di razzi Qassam sulle città del Negev o a impedire gli attacchi dei kamikaze. Ma di fronte alla paralisi dei negoziati, alle vuote dichiarazioni d’intenti dei leader politici e all’intransigenza degli opposti estremisti, offre almeno un concreto segnale di speranza. Dimostra che la comprensione e la solidarietà tra i due popoli in guerra è possibile. Che c’è ancora qualcuno che non ha paura della pace.
Senza il respiratore Maria non può parlare e il suo esofago dev’essere drenato ogni mezz’ora per mezzo di una sonda. Ma ha imparato l’ebraico e frequenta una delle scuole bilingui dell’associazione arabo-israeliana Mano nella mano. Quando dorme sogna di camminare e di tornare a casa. «Hanno distrutto la mia famiglia» dice Hamdi, il padre. «Però non provo rancore, il mio destino è stabilito da Allah. Ho visto gli israeliani, semplici cittadini, fare cose incredibili per Maria. Ora ci battiamo insieme perché sia il governo a occuparsi del suo futuro».
Sono in molti, arabi e israeliani, a pensare che la pace si possa costruire dal basso, che il solco dell’odio debba essere riempito in fretta, senza attendere l’improbabile palingenesi della politica mediorientale. L’avvocato palestinese Khalid Mahamid è uno di loro. Tre anni fa, lo stesso giorno in cui fu inaugurato lo Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, Khalid aprì a Nazareth, la più popolosa città araba d’Israele, il suo Arab institute for holocaust research and education: il primo e unico museo arabo dell’olocausto.

Il modesto edificio ospita un’esposizione di fotografie che illustrano le persecuzioni degli ebrei in Europa, i campi di sterminio, la vita nei ghetti, l’esodo in Palestina. E, sull’altra parete, le immagini della Nakba, la disfatta araba del 1948, i villaggi palestinesi distrutti, le tende dei profughi. «Gli arabi negano l’olocausto perché lo considerano un’arma nelle mani di Israele» spiega l’avvocato, che ha investito 200 mila dollari nel progetto, ha stampato più di 2 mila opuscoli, offre borse di studio sull’argomento e anima un sito web (www.alkaritha.org). «Ma io sono convinto che non faremo progressi se non saremo capaci di abbattere il muro dei pregiudizi e la barriera dell’incomunicabilità. Il maggiore ostacolo alla pace è la reciproca ignoranza della storia dei due popoli».
Jenin è nota come «la città dei kamikaze»: i suoi campi profughi hanno sfornato il più alto numero di uomini bomba dall’inizio della seconda intifada. I blocchi di cemento alti 8 metri del muro e i carri armati la circondano da ogni parte. I militari vi compiono frequenti incursioni notturne. Per entrare e per uscire i palestinesi hanno bisogno di un permesso speciale e devono ogni volta sottoporsi a meticolose e umilianti perquisizioni all’interno di un check point dotato di telecamere, scanner ai raggi infrarossi e cani annusaesplosivo.

È l’ultimo posto dove verrebbe in mente di cercare segnali di riconciliazione. E invece basta non fermarsi ai muri tappezzati di ritratti dei «martiri», di foto di Saddam Hussein e dello sceicco Yassin, il fondatore di Hamas assassinato dall’esercito israeliano. Basta inoltrarsi nei vicoli, tra le case che mostrano i segni indelebili della guerra e del degrado, per imbattersi nell’imbianchino Ismail, padre di Ahmad, 11 anni, settecentosessantesimo bambino ucciso nella seconda intifada, colpito mentre armeggiava con una pistola giocattolo. Ismail ha donato gli organi del figlio a sette coetanei di Ahmad, cinque ebrei e due musulmani, perché «anche così possiamo costruire la pace tra i due popoli».
A poca distanza, nel campo profughi, ha riaperto il Freedom Theatre, fondato negli anni Ottanta dall’israeliana Arna Mer-Khamis con l’intento di promuovere la coesistenza tra arabi ed ebrei e demolito dai carri armati durante l’invasione di Jenin nel 2002. Lo gestiscono Juliano, figlio di Arna (morta di cancro nel ’95), e Zakaria Zubeideh, 31 anni, ex capo delle Brigate al-Aqsa, per lungo tempo in testa alla lista dei «most wanted» dei servizi di sicurezza israeliani. Zubeideh, che nel conflitto ha perso i genitori e un fratello, ha rinunciato alla lotta armata per dedicarsi al progetto teatrale.
«Quasi tutti i miei compagni d’infanzia» racconta «sono morti in operazioni suicide. Ma con la violenza non abbiamo ottenuto niente. Con il teatro cerchiamo di ricostruire ciò che la guerra ha distrutto: l’identità della generazione perduta dell’intifada. E recitare è per noi sinonimo di libertà. Libertà dall’occupazione ma anche dai preconcetti, dai condizionamenti sociali, culturali, religiosi. Sognavamo di imbracciare il mitra e diventare martiri. Ora abbiamo un altro scopo nella vita: contribuire a formare dei leader migliori di quelli che abbiamo avuto in passato». Più di 2 mila giovani sono coinvolti nelle attività del Freedom Theatre: corsi di recitazione e danza, cinematografia, giornalismo e mimo, in collaborazione con l’Arab-American University.

Sempre a Jenin incontro alcune ragazze reduci da uno dei peace camp organizzati in Canada da Linda Divon, moglie dell’ex ambasciatore israeliano a Ottawa. Lì per la prima volta Nermin, Jwana e Samah, studentesse sedicenni, hanno vissuto e si sono confrontate con i coetanei ebrei. Il gap culturale resta profondo.
«I ragazzi israeliani» dice Samah «non hanno la minima idea della situazione nei Territori. Non immaginano cosa significhi vivere all’ombra del muro, passando da un posto di blocco all’altro, con le strade chiuse, pattugliate dai soldati, e gli elicotteri che volano a bassa quota. Nel 2002, durante l’invasione, i militari hanno fatto saltare la nostra casa con la dinamite. C’erano ovunque cadaveri abbandonati e le ambulanze non potevano entrare. Due dei miei zii sono morti, mio cugino è stato ferito e arrestato e mio padre, accusato di terrorismo, è costretto alla clandestinità».

Le ragazze concordano però sull’utilità dell’esperienza, che intendono ripetere: «Conoscevamo solo israeliani in divisa militare. E loro pensavano che noi fossimo tutti terroristi. Parlando, ci siamo resi conto che nonostante le divergenze di opinioni vogliamo la stessa cosa: vivere in pace».
Due delle loro nuove amiche israeliane, Or e Shirel, abitano a Sderot, la cittadina del Negev bersaglio dei razzi Qassam lanciati quasi ogni giorno dai palestinesi della Striscia di Gaza: uno è esploso, senza conseguenze, nel giardino della villetta della famiglia di Shirel. «Non possiamo certo andare a Jenin» spiegano «ma la tecnologia ci aiuta a superare le distanze: comunichiamo con Skype e Facebook».
Costruire un ponte tra i due popoli è anche, dal febbraio 2006, l’obiettivo di Ram Fm 93.6, l’unica emittente in inglese della Palestina, con studi a Ramallah e a Gerusalemme, staff arabo-israeliano e capitali investiti a profusione dall’imprenditore ebreo Issie Kirsh, patron della celebre Radio 702 di Johannesburg: stazione che, ha riconosciuto lo stesso Nelson Mandela, fu decisiva nel promuovere il dialogo tra bianchi e neri dopo la fine dell’apartheid. «Diamo voce a tutti» dice Raf Gangat, ex diplomatico ed ex giornalista sudafricano, che conduce un seguitissimo talk show. «Ci ascolta un numero crescente di israeliani e di palestinesi. Non faremo noi la pace ma possiamo contribuire a generare un clima di reciproca fiducia».

Hebron e Neve Shalom, in quanto a fiducia, sono agli antipodi. La città dei Patriarchi è il simbolo dell’intolleranza. Novanta famiglie di coloni ebrei ultraortodossi, armati fino ai denti e protetti dall’esercito, si sono installate nel centro dell’abitato arabo e il loro portavoce David Wilder, pistola alla cintura, ha convinzioni granitiche: «Hebron è e resterà ebraica. Lo stato palestinese è una chimera. In una guerra di religione non c’è spazio per i compromessi. Non vogliamo rapporti con gli arabi: lupi e agnelli non possono convivere». In via Tall Rumede tutte le case sono state occupate dai coloni. L’unica a resistere è la famiglia Abu Ashe, barricata in una palazzina con le grate di ferro alle finestre per fare scudo ai sassi. «Ci minacciano e ci insultano» afferma Reema, madre di otto ragazzini. «Hanno dipinto la stella di Davide sul portone. Dobbiamo chiedere il permesso ai militari persino per chiamare l’idraulico e per avere la bombola del gas. Ma da qui non ce ne andremo».
Neve Shalom, l’Oasi della pace a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, è invece il sogno realizzato: l’unico luogo della Terra santa dove ebrei, cristiani e musulmani hanno scelto, più di vent’anni fa, di vivere insieme. L’insegnamento è bilingue, i professori sono arabi ed ebrei, l’amministrazione è paritetica e le decisioni, assembleari, sono prese di comune accordo. «Il governo non ci vede di buon occhio» ammette Tibi Kamil, responsabile delle finanze, «anche perché ci siamo espressi contro la guerra in Libano e molti di noi sono obiettori di coscienza. Ma portiamo avanti il nostro esperimento, imparando dagli errori del passato, dimostrando ogni giorno che la convivenza non è soltanto possibile: è necessaria».

A Neve Shalom sono germogliate iniziative come il circolo dei genitori, che accoglie i familiari arabi e israeliani dei giovani caduti nel conflitto. E come il progetto Cross border, animato da Michal Zak, la combattiva direttrice della Scuola per la pace, che con l’appoggio americano ed europeo ha riunito intorno a un tavolo una sessantina di delegati ebrei e musulmani dai 21 ai 64 anni.
Il primo incontro si è svolto in Turchia, il secondo si terrà in aprile in Giordania. Sono intellettuali e professionisti, studenti e contadini, metà israeliani e metà dei territori occupati, metà uomini e metà donne. Tutti decisi a discutere, senza precondizioni, del futuro della Palestina.

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