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Panorama Rassegna Stampa
03.02.2008 Interviste a Khaled Meshal, il capo di Hamas, e ai fabbricanti di razzi kassam
acritiche verso la loro propaganda

Testata: Panorama
Data: 03 febbraio 2008
Pagina: 0
Autore: Stella Pende - Giovanni Porzio
Titolo: «PACE? ECCO LE MIE CONDIZIONI A ISRAELE. -Gaza, nella fabbrica dei missili kassma»

PANORAMA datato 7 febbraio 2008, pubblica a pagina 86 un'intervista di Stella Pende a Khaled Meshal dalla quale risulta che i preparativi a quest'incontro siano durati almeno un anno.

Dopo tanti sudori, ci sorprenderebbe volentieri un ritmo più stringente nelle domande.


Meshaal, riferendosi alle relazioni tra Hamas e Al-Fatah (notoriamente fratricide) ci dice che, e citiamo:_'' Noi vogliamo l'unità del nostro popolo e vogliamo la pace.''

Ce ne sarebbe abbastanza per chiedere a Meshaal (e alla Sig.ra Pende che domande di questo genere non ne pone), per esempio, cosa impedisce a Hamas chiedere 'pace' anche in relazione ad Israele?La Sig.ra Pende fa seguito con una domanda a dir poco zuccherosa:_''La comunità internazionale chiede perché non salvate la vita a Gaza fermando i vostri razzi Qassam.''

 '..salvare la vita a Gaza...'?!

E gli israeliani di Sderot e Ashkelon che muoiono quotidianamente, nel silenzio dei media italiani e non solo, nessuna menzione?


Fortunatamente Meshaal supplisce alle carenze della Sig.ra Pende, poco più in là nell'intervista, quando il leader in esilio a Damasco, ci dice che i dirigenti di Hamas, e citiamo ancora:_''...,noi siamo pronti a una tregua (con Israele) di dieci anni almeno.'' I termini 'pace' e 'tregua', in linguaggio giuridico-diplomatico internazionale, hanno significati un poco diversi, non Le pare Sig.ra Pende?

Nessuna domanda su questa evidente contraddizione emersa ?


Volendo sorvolare, almeno per brevità, sul contenuto spesso menzoniero, delle risposte di Khaled Meshaal: fino alla barbarie intellettuale dimostrata quando, stupendosi della sollecitazione della Pende a proposito del soldato israeliano ostaggio di Hamas Gilat Shalit, Meshaal ci dice:_''...Sta bene ed è anche trattato con i guanti bianchi. Ma perchè tanta ansia per una vita sola... ''. E fino a giungere alla propaganda de 'la terra era nostra' sul finire dell'intervista:_'' La metà del popolo palestinese oggi nel mondo arriva da luoghi che una volta erano solo nostri.''


Per consolarci (sic!), basta leggere l'ultima domanda della Sig.ra Pende a Meshaal:_'' A proposito di attacchi di Israele: é stato un nemico più duro Ariel Sharon o Ehud Olmert?''

Ci verrebbe da dire: No Comment!

Ecco il testo:

Damasco, conferenza di Hamas e dei suoi «veri» fratelli palestinesi. Il giardino brulica di signori baffuti con auricolari lunghi come antenne. Tutti uguali, sembrano cloni. È la guardia di sicurezza di Khaled Meshaal, supremo padrone di Hamas. Il più potente, ricercato, inintervistabile leader palestinese. Colui che da Damasco comanda sul milione e mezzo dei palestinesi nella Striscia di Gaza, che decide e pesa sempre di più sul destino di questo Medio Oriente impazzito. «La pace in Palestina la può decidere un uomo solo» ha scritto il New Yorker. «Il suo nome è Khaled Meshaal».

Come per Muammar Gheddafi e per Yasser Arafat, storici leader arabi, anche con lo sceicco Meshaal avverti un odore di soggezione e di idolatria insieme. Prima di arrivare all’intervista la macchina fotografica di Jiro, fotografo giapponese, viene vivisezionata. Anche la borsa. Anche la Coca-Cola. Chiedono scusa per il disturbo questi gentlemen di Allah, ma non perdono un centimetro di quello che entrerà di noi e con noi in quella stanza immensa. Poltrone, moquette e un divano grande abbastanza per lasciare un vuoto tra me e lui.

«Preferiremmo che lei usasse il suo velo» mi dice, gentilmente ma definitivamente, l’assistente Abu Mustafà, che dal principio ha seguito l’odissea dell’incontro durata un anno. «Da questo momento ci vorrà una mezz’ora» mi anticipa. Ma il conto alla rovescia non fa in tempo a partire che Meshaal si materializza all’improvviso. Furia di fogli, di borse e di uomini che lo precedono, lo seguono e lo riveriscono. Lui è come si racconta: dritto, volto barbuto sorridente, una spada negli occhi. La mano al petto. Una donna non si sfiora neppure.

Conosce bene l’inglese, ma pretende di parlare arabo. La sua cultura non si tradisce. Meshaal è uomo irraggiungibile. Tre attentati falliti lo obbligano a una sicurezza ossessiva. Ma il re di Hamas è anche lun gimirante nel riconoscere il momento giusto.

«Dopo la fuga di massa da Gaza, naufraga la politica mediorientale di Israele e America fondata sull’esclusione di Hamas dal processo di pace» dice Robert Malley, direttore del programma mediorientale di Bill Clinton. «La lezione è che il negoziato politico è diventato una partita a scacchi a tre: Israele, Abu Mazen e Hamas, che ha mostrato di avere strumenti politici, economici e militari per influenzare grandemente gli eventi».

Per questo Meshaal parla: «Nel nome di Allah altissimo e misericordioso. La conferenza nazionale palestinese ha riunito i capi più importanti: i responsabili dei campi profughi, i leader dei territori occupati, come il sindaco di Nablus Bassam Shakar e molti altri. Questa conferenza arriva proprio quando la speranza degli abitanti di Gaza è asfissiata, quando per i blackout i neonati rischiano di morire nelle incubatrici degli ospedali».

Uno dei direttori dell’ospedale di Gaza ha detto che se questo accadrà sarà colpa degli israeliani, di Abu Mazen ma anche di Hamas e dei suoi razzi. Come gli risponde?

Rispondo che noi, nonostante quello che si dice, rispettiamo le critiche. Ma il mondo intero sa che la gente di Gaza muore perché è Israele che vuole questa morte giorno per giorno. Perché Israele si nutre dell’agonia dei nostri per esistere politicamente e militarmente. Noi siamo la sua carne per vivere. Il male è che oggi è aiutato da chi fra i nostri fratelli lo appoggia con il silenzio e con la complicità.

Abu Mazen?

Non c’è bisogno di fare nomi (sorride, il duro Meshaal).

Molti dicono che questa disperata crisi di Gaza era l’occasione per trovare la pace tra Meshaal e Al Fatah, rifondando l’unità dei palestinesi.

Molti dicono giusto. Ma tutti sanno che ogni giorno Hamas dimostra la disponibilità a questa pace. Soprattutto oggi davanti al chiaro fallimento del dialogo tra Abu Mazen ed Ehud Olmert. È vero, questa nostra conferenza era un’occasione. Peccato che Abu Mazen non vi abbia partecipato. Devo dirlo pubblicamente? Noi vogliamo l’unità del nostro popolo e vogliamo la pace.

La comunità internazionale si chiede perché non salvate la vita a Gaza fermando i vostri razzi Qassam.

Una perversione della verità. Sono i primitivi razzi Qassam che uccidono il nostro popolo o le bombe degli aerei israeliani? Del resto i loro generali misurano il successo dai palestinesi uccisi. Yuval Diskin, capo dello Shin Beth, ha da poco informato il governo dei risultati ottenuti: 810 palestinesi ammazzati negli ultimi 2 anni. L’operazione del quartiere Zeitun a Gaza è stata definita un grande successo: 19 palestinesi uccisi in un solo giorno. E nei funerali che seguono a questa gloria sono spesso piccole le barelle funebri. Perché si tratta dei nostri bambini.

Rimane il fatto che se voi continuate coi razzi gli israeliani continueranno con le incursioni aeree. Si tratta di un inutile massacro all’infinito. Qual è il vostro progetto per trovare la luce in fondo al tunnel?

Senta, nel 2003 e poi nel 2005 e anche nel 2006 noi abbiamo fermato i nostri razzi. Israele ha forse fermato la sua guerra? No, ne ha approfittato per aggredirci più indisturbato. La legge naturale degli uomini di tutti i tempi dice che, se ti ammazzano e se occupano la tua terra, qualunque uomo ha il diritto di difendersi. Lei dice che i Qassam sono inutili? Le rispondo che i Qassam fanno paura a Israele. La differenza tra noi e loro è che noi non abbiamo paura di morire. Loro sì. Per questo vinceremo.

La morte non può essere una cultura di vita. Lei ha detto: «Adesso con le ultime stragi niente tregua, niente scambio di prigionieri, nulla di nulla». Insisto: più Hamas diventa forte politicamente, più la vostra gente muore.

Dichiarazione imperfetta. Ho detto che Israele non andrà da nessuna parte, se pensa di imporre condizioni con la sua guerra feroce. Le condizioni oggi le imponiamo in due. Con la mediazione egiziana avevamo già deciso il numero dei prigionieri e il luogo dove scambiarli. Mancavano i nomi. Ma non faremo mai scambi con qualcuno che ha le mani sporche del nostro sangue.

Sceicco Meshaal, il primo e fondamentale passo sarebbe la restituzione del soldato Gilat Shalit. Di lui non si sa nulla. Può dire almeno se è morto o è vivo? E, se sì, come sta?

Ebbene, Gilat Shalit è vivo. Sta bene ed è anche trattato con i guanti bianchi. Ma perché tanta ansia per una vita sola contro 12 mila vite di nostri prigionieri incarcerati da Israele, compresi ministri, donne e bambini? E perché lei e altri giornalisti non avete mai chiesto al signor Olmert notizie sulla salute di quel milione di carcerati che vivono dimenticati a Gaza?

Insomma, questa è l’occasione per chiarire. Lei ha detto: «C’è un’entità chiamata Israele sul resto della terra palestinese». Dunque Israele esiste. Lei riconosce Israele?

Se Israele si ritira, se riconosce Gerusalemme e il ritorno del nostro popolo, e se infine smantella le colonie che ci occupano, noi siamo pronti a una tregua di 10 anni almeno.

Meshaal, lei riconoscerà i due stati: quello di Israele e l’altro palestinese?

Senta, la metà del popolo palestinese oggi nel mondo arriva da luoghi che una volta erano solo nostri. Ma oggi sono occupati. Sarebbe giusto che proprio Hamas riconoscesse come terra israeliana quella dove sono nati i nostri padri e i nostri nonni? Non mi si può chiedere questo. Ma insisto: se Israele accetterà le nostre proposte io propongo una tregua.

Lei parla come se fosse Hamas, cioè lei, il primo attore in questo dramma che è il conflitto palestino-israeliano. Come considera la missione di pace di George W. Bush?

Che, come d’abitudine, la sua è stata una missione di guerra. È venuto a caricare i nostri nemici contro Gaza, la Siria e Hezbollah. E pure contro l’Egitto, che ci ha aiutato aprendo il valico di Rafah. Bush e i nuovi conservatori, come il suo amico Dick Cheney, hanno interesse a una resa palestinese, non a una tregua fra gli attori del conflitto mediorientale. Piuttosto la presenza di George Bush ha voluto significare davanti al mondo un appoggio forte a Olmert alla vigilia della commissione Winograd che rischia di essere per lui un’ennesima débâcle.

Il suo amico Hassan Nasrallah ha detto che Bush ha promesso ai libanesi che con il tribunale internazionale a maggio vedranno la fine della loro odissea. Ma che in realtà in questi mesi l’America proverà ad aggredire l’Iran e che Israele farà l’attacco d’affondo a Gaza. Vero?

È scritto che i falchi di Israele stiano preparando l’attacco a Gaza. È scritto pure che l’America, con i suoi capricci militari che le hanno portato così noti successi, possa pensare l’attacco all’Iran. Non mi parrebbe una buonissima idea. Soprattutto davanti alla gloria raccolta dalle guerre americane in giro per il mondo.

A proposito di attacchi di Israele: è stato un nemico più duro Ariel Sharon o Ehud Olmert?

A nessun uomo si può chiedere qual è stato l’assassino migliore del suo popolo.


A pagina 84 Giovanni Porzio si mette alla ricerca delle ''fabbriche del terrore'' di Gaza.

Là dove quei missili Qassam di prima, seconda, terza, quarta generazione, che han provocato e provocano la morte di decine di israeliani e l'abbandono della cittadina di Sderot da parte di più di ventimila cittadini, vengono assemblati.


Paura legittima che il qassam giusto uccida il proprio marito, figlio, padre.


Porzio fa dire molto e ne apprezziamo la capacità di intrattenenimento del leader delle brigate Al-Aqsa di Gaza, il quale ci svela il segreto di pulcinella:_''Il materiale (dei missili qassam) arriva di contrabbando da Israele e attraverso il valico di Rafah.''


Il Reportage di Porzio è godibile alla luce anche delle informazioni che ci offre.

Se non fosse che incede, al calar dell'intervista, sulla reiterazione retorica del ''bambino di Gaza che non ha le cure e che muore'' (TANTO CARA A KHALED MESHAAL, vd. pag 87) , negatele a quanto pare, dal perfido Stato d'Israele.

A pensarci bene qualcosa non funziona.


Chi dovrebbe pagare per le cure di:_'' Abdallah, 7 anni, gravemente malato, attende da mesi l'autorizzazione israeliana per trasferirsi a Tel Aviv e sottoporsi ad un intervento...''

A rigor di logica, e Porzio non rileva questo aspetto del problema, il povero Abdallah, perchè povero è merita come ogni individuo le cure del caso, dovrebbe essere curato proprio nelle e dalle strutture ospedaliere israeliane, con i denari dei cittadini di Sderot o di qualsiasi altra città di Israele, che vivono i drammi psicologici e le amputazioni, se non sempre materiali almeno emotive, di vedersi recapitare, con quindici secondi di anticipo, all'urlo meccanico di ''tzeva adom'', un 'bel missile' qassam.


Ancora più incauto Porzio allor quando, proprio all'ultima frase del suo breve reportage, fa parlare il povero:_'' Kamal al-Riba è uno dei senza lavoro. Abita con moglie e sette bambini in un tigurio del campo profughi di Shati...'' tirandoci addosso un maleodorante giustificazionismo di questo Sig., presunto disperato, che così recita:_'' Non meravigliatevi se anche i miei figli un giorno spareranno i qassam.''

Sig. Porzio perchè non ha fatto parlare il dolore della madre, della moglie, della figlia di Sderot.?

Forse perchè queste persone sarebbero meno inclini a mostrare i propri dolori e le proprie miserie.

E ancora:Perchè non ci dice che le ragioni del degrado della vita di Kamal al-Riba e della sua famiglia non sono riconducibili a Israele, bensì ad una dirigenza, quella di Hamas a Gaza, che preferisce il motto, tanto caro anche in Italia, del ''tanto peggio, tanto meglio?''

Ecco il testo:

La vecchia Mercedes di Zaim gira a vuoto nella strade buie della periferia di Gaza. In attesa del via libera percorriamo a passo d’uomo gli squallidi sobborghi della capitale di «Hamastan». È una notte livida e piovosa, e qui la pioggia è maledetta: allaga i miserabili e sovraffollati alloggi dei campi profughi, trascina nei vicoli fiumi di liquami e di immondizia. Le uniche luci sono quelle alimentate dai generatori e i fari delle poche auto che la penuria di benzina non ha fermato.

Il segnale convenuto è una vibrazione sul telefonino: un sms con il luogo dell’appuntamento. Zaim accelera e svolta in un quartiere di anonime palazzine di cemento e di officine che paiono abbandonate, con i muri tappezzati di versetti del Corano e di manifesti con le foto dei «martiri» dell’intifada. Gli shebab, i «ragazzi», aspettano all’incrocio, con la kefiah calata sul volto e il kalashnikov in spalla. Li seguiamo dentro un uscio semichiuso e sulle scale di un fabbricato in disuso fino alla porta di ferro della «casa sicura».

Abu al-Walid, il capo delle Brigate al-Aqsa di Gaza, è ricercato dai servizi segreti israeliani e vive in clandestinità. I suoi commando, questa notte, hanno già lanciato una dozzina di razzi Qassam contro Sderot, la cittadina ebraica a ridosso del confine. «E almeno due sono andati a segno» afferma soddisfatto. «Abbiamo cominciato a progettarli durante la seconda intifada. Mettendo in pratica quello che avevamo imparato. Molti di noi hanno frequentato corsi militari in Algeria e Pakistan. Io sono stato dal 1995 al 2000 in Algeria, all’accademia di Cherchell, dove avevo istruttori russi».

Da anni ormai i proiettili artigianali assemblati negli scantinati della Striscia di Gaza cadono sugli abitati ebraici: ordigni rudimentali che provocano limitati danni umani e materiali, ma infliggono profonde ferite psicologiche. La popolazione civile è costantemente sotto tiro, costretta a evacuare le scuole e a correre nei rifugi ogniqualvolta gli altoparlanti lanciano l’avviso di «tzeva adom», colore rosso, che scatta solo una quindicina di secondi prima dell’impatto.

Ritorsioni, incursioni aeree e terrestri, demolizioni degli edifici sospettati di occultare depositi di razzi e laboratori per la loro fabbricazione non sono serviti a impedire lo stillicidio degli attacchi. Nelle ultime due settimane si sono intensificati al punto che il ministro della Difesa Ehud Barak ha decretato la chiusura totale dei valichi di frontiera e il blocco delle forniture di carburante, energia elettrica, pezzi di ricambio e beni di prima necessità a 1 milione e mezzo di palestinesi della Striscia.

Gli shebab adagiano un razzo pronto per il lancio sul pavimento. «I nostri tecnici hanno già sviluppato otto generazioni di Qassam» spiega Abu al-Walid. «Da 2, 3, 4 e 6 pollici. Abbiamo sperimentato i prototipi da 2 pollici contro gli insediamenti di Gush Katif, prima del ritiro dei coloni. Avevano una gittata di 2-3 chilometri e una testata con 800 grammi di tritolo, mentre quelli da 3 pollici trasportano 3,5 chili di esplosivo. Le testate dei più grandi, 6 pollici, contengono 8 chili di Tnt e sono spinte da 22 chili di propellente alla nitroglicerina: con una gittata di 13,5 chilometri raggiungono Ash kelon».

Il tubo di neon, nella piccola stanza annebbiata dal fumo delle sigarette, si spegne con un tremito: i miliziani accendono candele e una lampada a gas. Uno di loro prende in mano con cautela la spoletta del detonatore, indica la sicura e il foro di innesto nella testata. «Questo» dice «è un 103 da 4 pollici: sono i più precisi e affidabili. Li usiamo dal 2007 e li chiamiamo Autunno di Gaza. Sono dotati di timer e accensione elettrica e hanno distrutto 25 case a Sderot».

Scendiamo nel garage. Una fresa, un tornio, la fiamma ossidrica, macchine di precisione tedesche e italiane che provengono dagli stabilimenti abbandonati di Gaza. Molti di questi laboratori sono stati distrutti dai raid dell’aviazione israeliana. Molti continuano a lavorare nottetempo, sfornando armi sempre più sofisticate. Google Earth fornisce mappe accurate degli insediamenti israeliani e consente di affinare il tiro dei Qassam, che hanno un margine di errore di 200 metri.

La materia prima è ammucchiata contro una parete: tubi cavi di vario diametro e sacchi di farina pieni di esplosivo. Vettori, testate, alette direzionali e parti metalliche sono tutte modellate e rifinite al tornio da operai specializzati sulla base di millimetrici disegni tecnici. Tritolo e componenti chimici, esplosivi e propellente vengono stemperati e sminuzzati nei catini, pesati e compressi nelle testate e nel vettore. «Il materiale arriva di contrabbando da Israele e attraverso il valico di Rafah» chiarisce al-Walid.

Albeggia. I miliziani caricano i razzi su una jeep e si dileguano. Nelle strade compaiono i primi furgoni di ritorno da Rafah, dove Hamas ha aperto un varco permettendo a decine di migliaia di palestinesi di riversarsi a el-Arish, in Egitto, a fare incetta di benzina, sigarette, cemento, medicinali, latte in polvere, pneumatici e capre.

L’assedio è stato spezzato, ma la strategia israeliana dello strangolamento economico continua nonostante la condanna del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che l’ha definita una «punizione collettiva» che viola la convenzione di Ginevra sulla salvaguardia dei civili in guerra. E i Qassam sono tornati a cadere su Sderot.

Il circolo vizioso degli attacchi terroristici e delle rappresaglie israeliane sta affossando sul nascere il piano di pace annunciato al vertice di Annapolis. Nelle prime 3 settimane del 2008 oltre 70 palestinesi, fra i quali numerosi civili, sono morti nei bombardamenti di Gaza. Dopo lo sfondamento del confine di Rafah il traballante governo di Olmert è parso tentato dalla prospettiva di liberarsi della Striscia scaricando la patata bollente all’Egitto. E il leader di Hamas a Gaza, Mahmud Zahar, si è dichiarato favorevole allo scioglimento dell’unione doganale con lo stato ebraico, dato che le tasse riscosse da Israele per conto dell’Autorità palestinese finiscono nelle casse di Abu Mazen e di Al Fatah.

Mentre lo stato indipendente sognato da Yasser Arafat e ora vagheggiato anche da George W. Bush appare sempre più illusorio, la popolazione di Gaza paga il duro prezzo dell’embargo e del boicottaggio internazionale. All’ospedale al-Shafa Ayman Sisi, medico che dirige il reparto dialisi, ha un terzo delle apparecchiature fuori uso per mancanza di pezzi di ricambio e ha dovuto ridurre i tempi di trattamento ai pazienti. Abdallah, 7 anni, gravemente malato, attende da mesi l’autorizzazione israeliana per trasferirsi a Tel Aviv e sottoporsi a un intervento. In dicembre 29 ricoverati sono deceduti per assenza di cure.

La parziale ripresa delle forniture di carburante non basta a soddisfare la domanda. A fronte di un fabbisogno di 250 mila litri al giorno ne sono disponibili meno di 70 mila. Dal golpe di Hamas nel giugno scorso più di 35 mila imprese con 16 mila operai hanno chiuso e il tasso di disoccupazione è salito dal 60 al 75 per cento.

Kamal al-Riba’i è uno dei tanti senza lavoro. Abita con moglie e sette bambini in un tugurio del campo profughi di Shati. Niente acqua né luce, né servizi igienici: solo due stanze umide, qualche coperta e un televisore spento. Kamal piange di rabbia e di vergogna. «Non meravigliatevi» dice «se anche i miei figli un giorno spareranno i Qassam».

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