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Informazione Corretta Rassegna Stampa
08.09.2017 Nel 1948 Israele non ha mai avuto 'politiche di espulsione' nei confronti dei palestinesi
Commento di Benny Morris

Testata: Informazione Corretta
Data: 08 settembre 2017
Pagina: 1
Autore: Benny Morris
Titolo: «Nel 1948 Israele non ha mai avuto 'politiche di espulsione' nei confronti dei palestinesi»

Nel 1948 Israele non ha mai avuto “politiche di espulsione” nei confronti dei palestinesi
Commento di Benny Morris

(Traduzione di Yehudit Weisz)  

a destra: Benny Morris

Riprendiamo questo articolo dello storico israeliano Benny Morris, uscito su Haaretz il 30 luglio 2017, per due motivi. Il primo, per la credibilità dell’autore, passato attraverso un percorso non ideologico nel raccontare il conflitto israelo-palestinese, partendo da posizioni vicine alla narrativa arabo-palestinese, per giungere poi, con lo scoppio della seconda intifada e del terrorismo, a rivedere molte delle sue posizioni. Il secondo, per il giornale sul quale è stato pubblicato, Haaretz, che non brilla certo per equilibrio e rispetto per la verità storica, sposando quasi sempre la versione arabo-palestinese. Se è stato chiesto a Benny Morris di recensire questo libro, non vi è dubbio che l’autore Adel Manna ha superato ogni limite.

Per conoscere il pensiero di Benny Morris, uno degli storici israeliani più interessanti, consigliamo di leggere i suoi articoli disponibili nel nostro archivio, andare in Home Page e scrivere "Benny Morris" nella finestra in alto a destra.

Ecco l'articolo:

‘Il problema dei rifugiati palestinesi è dovuto ad un piano generale sionista e alla “pulizia etnica”’, afferma lo storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, dove ‘macellazione’ e ‘espulsione’ appaiono in quasi ogni pagina. Mi sono avvicinato al nuovo libro di Adel Manna, “Nakba and sopravvivenza: La storia dei palestinesi che sono rimasti a Haifa e in Galilea, 1948-1956" con un po’ di speranza. Conosco la narrativa dei palestinesi , intrisa di perdita di identità, di discriminazioni, di drammi e di ingiustizia infinita senza alcuna colpa da parte loro. In questo libro però tutto il bene è da una parte e dall’altra ci sono i cattivi, tra cui i peggiori sono i sionisti. Questa versione è stata propagandata per decenni dai leader palestinesi e dai commentatori e storici arabi,, dagli studiosi e dai loro sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said e Ilan Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle librerie in Occidente.

In Israele, i loro scritti sono in gran parte non disponibili poiché molti non sono stati tradotti in ebraico. Questo vuoto sarà ora colmato con la pubblicazione, in ebraico, a cura dell'Istituto Van Leer e per i tipi della Casa Editrice Hakibbutz Hameuchad, di “Nakba e sopravvivenza” (Nakba significa "catastrofe", come i palestinesi definiscono la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo. Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato all'Università Ebraica di Gerusalemme e poi per anni ha insegnato in diverse università e college. I suoi campi di competenza includono la Storia della Palestina, dei palestinesi e di Gerusalemme dal tempo degli ottomani a oggi, e del conflitto arabo-israeliano. Da una conoscenza superficiale di Manna, credevo che lui fosse un esperto della storia della Palestina e dello Stato d'Israele. Avevo sperato che sarebbe riuscito a scansare la propaganda palestinese e a costruire una storia basata su fatti e documenti , dimostrando un’apertura intellettuale e una visione di entrambi i lati della medaglia. Sono rimasto deluso. A dire il vero, Manna non nasconde il suo punto di partenza. Nella sua introduzione, c'è una promessa o un avviso che il libro è scritto "dalla prospettiva dei sopravvissuti ....nel mio libro ho scelto di non assumere l’atteggiamento dello storico imparziale, che nei suoi scritti ignora le proprie preferenze personali e ideologiche” (forse tutto o la maggior parte era implicito nell’uso del termine “sopravvissuti”, come se gli arabi che erano rimasti in Israele nel 1948 fossero riusciti a sopravvivere alla politica ideologica e a una campagna volta alla loro estinzione).

Devo avvertire i lettori che le 377 pagine, fitte e dense, di "Nakba e sopravvivenza" soffrono di innumerevoli ripetizioni, sia di storie (per esempio, quella dell'esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal Krum il 5 novembre 1948, che viene ripetuta almeno tre volte) e di varie rivendicazioni. La descrizione di quel che è successo nel 1948 definita come "macellazione ed espulsione" o "espulsione e macellazione" appare su quasi ogni pagina almeno una volta, se non di più. Anzi, vorrei dire che il numero di volte che questa frase compare nel libro è superiore al numero di arabi che sono stati uccisi. Inoltre vale la pena notare che le uccisioni di ebrei per mano degli arabi , perché anche questo è successo, non sono mai menzionate nel libro - e quando Manna si riferisce alla strage presso la raffineria di petrolio a Haifa il 30 dicembre 1947, la definisce come un "attacco" o un "attacco grave", non come macellazione. Ecco come stanno le cose rispetto alla storiografia reale. Il libro è diviso in due parti. La prima riguarda quanto è accaduto nel 1948 e la seconda si concentra su ciò che è accaduto tra il 1949 e il 1957 agli arabi rimasti in Israele, che si definiscono "abitanti palestinesi dello Stato di Israele" o come "arabi del 1948". In entrambe le parti l'enfasi è sul corso degli eventi al Nord - in Galilea e a Haifa – dedicando scarso spazio a quel che successe nel centro e nel Sud del Paese. Nel suo lavoro, Manna utilizza ampiamente (e condivido) la stampa araba, la stampa ebraica di sinistra e le trascrizioni di processi, in particolare le deliberazioni presso l'Alta Corte di Giustizia, riguardanti la minoranza araba e i partiti politici arabi dal 1948 al 1957. Gran parte del libro si basa sulle interviste che lui o altre persone hanno fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita nello Stato d'Israele. Manna difende con calore il valore della "storia orale" come fonte affidabile per ricostruire gli eventi e le emozioni del passato. Nel corso di "Nakba e sopravvivenza", "dimostra" che ciò che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti, è congruente con quello che è legato alla documentazione di quegli anni giunta fino a noi (questo contrasta con la mia esperienza, che io stesso riconosco non essere molto ampia, per il fatto che spesso sono gli stessi intervistati a non ricordare più niente).

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In più non fornisce alcun dettaglio su come sono state condotte le interviste. A volte non dice nemmeno quando hanno avuto luogo o chi le ha fatte. È evidente che Manna ha fatto un po’ di lavoro d'archivio (quasi tutte le sue note a piè di pagina hanno voci di archivio inesatte e / o sono scorrette; per esempio, la maggior parte dei riferimenti all'Archivio dell’IDF ). Quasi tutte le citazioni provenienti da fonti primarie sono citate di seconda mano dalla ricerca di altri, compresi i libri che ho scritto io (per i quali Manna ha dimostrato apprezzamento ma anche riserve, alcune delle quali giustificate). Lui ha accuratamente scelto cosa citare e cosa ignorare.

Il piano generale sionista

Nella maggior parte dei casi, gli storici distorcono la storia non con grossolane menzogne, ma ignorando importanti documenti ed episodi fondamentali. Per quanto riguarda la guerra del 1947-1949, la storia di Manna è semplice: gli ebrei hanno sradicato gli arabi dai loro luoghi abitativi e hanno continuato a farlo anche negli anni successivi alla guerra; non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno con legittime affermazioni. Eppure non c'era neppure una guerra, c'era solo sradicamento, nient'altro. Manna, bisogna dargliene atto, osserva che gli arabi della Palestina e i leader arabi della regione avevano effettivamente rifiutato il Piano di Partizione (adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947, che secondo l'opinione di Manna era ‘immorale’), ma trascura di menzionare che il giorno successivo, i palestinesi avevano aperto il fuoco e dato il via al conflitto che, in poche settimane, è diventato una guerra civile, la prima fase della guerra che infuriò tra il novembre del 1947 e il maggio del 1948. Per come la vede Manna, la guerra è semplicemente scoppiata, nessuno l'ha iniziata.

La sua argomentazione di fondo, l'argomento centrale del libro, è che il problema dei rifugiati palestinesi è sorto a seguito di un piano generale sionista che è stato adottato consapevolmente fin dall'inizio e come conseguenza dell'applicazione sistematica di un piano: scrive "Il trasferimento degli arabi dalle aree del Paese agli Stati arabi confinanti era diventato un obiettivo dichiarato già fin dalla Relazione della Commissione Peel nel 1937. Il piano dell'offensiva ebraica (piano D), attuato nell'aprile del 1948, era stato un collegamento importante nella pianificazione dello sradicamento dei palestinesi [ma] la politica di pulizia etnica era molto più ampia e complessa di qualsiasi piano scritto ... In Galilea una politica di pulizia etnica fu attuata nelle fasi iniziali della guerra, in aree che erano destinate allo Stato ebraico secondo il Piano di Partizione ". Manna individua in due azioni dell'Haganah (l’esercito di difesa israeliano pre-Stato, NdT) già nel dicembre 1947 (le azioni a Khisas e Balad al-Sheikh) le manifestazioni del "desiderio da parte della leadership dell’ Yishuv (la popolazione ebraica nel Paese pre-statuale) che nessun palestinese rimanga nella Galilea orientale e nella piana costiera ". Successivamente menziona l'espulsione degli abitanti di Tiberiade, di Safed, di Beit She'an, di Jaffa, di Haifa e di Akko nei mesi di aprile e maggio 1948, come il risultato di questa politica. Manna continua a dire che durante la seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 - durante la guerra convenzionale che seguì dopo che gli eserciti degli Stati arabi confinanti ebbero invaso la Palestina – obiettivo della politica di Israele era e rimase lo sradicamento della popolazione araba locale. Infine, Manna sostiene che questa politica era ancora in vigore dal 1949 al 1956. Secondo lui, impedire il ritorno ai rifugiati e l’espulsione di massa di infiltrati nei primi anni dopo il 1948, erano pure manifestazioni di questa politica, e mette in risalto il fatto che la sua stessa famiglia era stata espulsa da Majdal Krum e inviata in Libano nel 1949.

Manna sostiene che Israele ha usato leggi contro l'infiltrazione per espellere il maggior numero possibile di arabi dallo Stato appena creato, inclusi quelli che non erano infiltrati, ma che non avevano avuto un documento di proprietà del registro del censimento della popolazione o una carta d'identità israeliana. Ha persino definito l’eccidio avvenuto a Kafr Qasem, nella cosiddetta zona del Triangolo, il 29 ottobre 1956, come espressione di questa politica. Le argomentazioni di Manna non sono convincenti. Lui ha ragione quando dice che esisteva una politica di espropriazione di terre e di discriminazione nei confronti degli arabi rimasti in Israele (anche se il Governo Militare e l'imposizione di restrizioni alla libertà di movimento erano misure logiche alla luce degli sforzi per distruggere l’Yishuv e l’ostilità continua , compresa la violenza da parte degli arabi nei Paesi circostanti, tra i quali i profughi della Palestina, contro lo Stato di Israele e i suoi abitanti ebrei). Ma una "politica di espulsione" dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una tale politica, perché non è stata implementata? Perché il numero degli arabi in Israele era in costante aumento, in parte a causa dell'infiltrazione di rifugiati che tornavano in Israele, che, nel corso degli anni, hanno poi ricevuto la carta d'identità? L'autore sostiene anche che l'intenzione di Israele era quella di sfruttare la Campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il piano è andato male a causa della non partecipazione della Giordania alla guerra. Anche questo è falso. C'erano sicuramente figure leader in Israele, tra cui il Capo dello staff dell’ IDF, Moshe Dayan, che sperava nel corso degli anni '50 che scoppiasse un'altra guerra per consentire a Israele di occupare la Cisgiordania o forse addirittura di espellere gli arabi israeliani in Giordania. Comunque sia, questa non era una "politica" dello Stato.

Nessun ordine di espulsione

Torniamo al 1948. Se Manna avesse letto i documenti nell'archivio dell’Haganah, in quello dell’ IDF o negli Archivi dello Stato d'Israele (o nell’edizione ampliata nel 2003 del mio libro sul problema del profughi, "La nascita del problema dei rifugiati palestinesi") avrebbe scoperto che non è mai esistita una politica per espellere i "palestinesi" e che l'Haganah non ha espulso gli arabi prima dell'aprile del 1948 (ad eccezione degli abitanti della Cesarea Araba, dove la motivazione non aveva nulla a che fare con la lotta con gli arabi).

Avrebbe anche scoperto che l'Haganah e la Direzione dell'Agenzia ebraica (Governo dell’ Yishuv) aderirono alla politica di accettazione del piano di suddivisione (sebbene di certo senza entusiasmo), che includeva una grande minoranza araba nello Stato ebraico. Il 24 marzo 1948, Yisrael Galili, capo del Comando Nazionale dell’Haganah ( di fatto il vice del Ministro della Difesa David Ben Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai comparti dell’Haganah per rispettare la politica esistente di lasciare sul posto e di garantire salvezza e sicurezza alle comunità arabe nelle aree previste per il nascente Stato ( all’infuori di casi eccezionali per ragioni militari). Anche nel passaggio da parte dell’ Yishuv alla modalità di attacco nei mesi di aprile e maggio del 1948, dopo essere stati strategicamente per quattro mesi in difesa, i capi e i membri del personale generale dell’Haganah non hanno adottato una politica di "espulsione degli arabi" e le varie unità hanno operato diversamente a seconda delle varie aree. Il piano D, a partire dal 10 marzo 1948, non obbligava ad "espellere gli arabi" - anche se i comandanti delle unità combattenti potevano decidere espellere alcune popolazioni arabe oppure no. Molto dipendeva dagli arabi, dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti ebrei, oltre alla circostanza di quanto avveniva in ogni area. A Haifa era stata la leadership araba a chiedere alla propria popolazione di evacuare (il sindaco ebreo Shabtai Levy e gli attivisti della federazione del lavoro di Histadrut chiesero loro di rimanere); a Tiberiade non ci fu alcuna espulsione (anche se forse le autorità britanniche mandatarie avevano incoraggiato l'esodo arabo); a Jaffa, la popolazione se ne andò a causa della pressione militare ebraica e delle aspettative di una presa del potere ebraica, dopo l’espulsione dei britannici ; a Safed fuggirono a causa della conquista della città da parte del Palmach, ma non come risultato di ordini di espulsione; e in Akko non ci fu alcun ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti rimase in città dopo la sua annessione il 18 maggio. Manna ha ragione dicendo che durante l'Operazione Hiram alla fine di ottobre del 1948, e nelle settimane successive, i soldati dell'IDF avevano commesso una serie di massacri (in Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun, Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove), e che ci furono espulsioni dai villaggi (Jish, Eilabun, Birim e altrove). Ed è anche vero che il trattamento dei Drusi (che avevano effettivamente stipulato un'alleanza con l’ Yishuv) e i cristiani ebbero un trattamento diverso da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano attaccato l’ Yishuv.

Tuttavia, non esisteva alcuna linea di condotta, nè vi era alcuna uniformità nel comportamento tra le unità e gli ufficiali israeliani. Il 12 di novembre , Yakov Shimoni, un ufficiale del Ministero degli Esteri ( precedentemente era stato un membro anziano nel servizio di intelligence (Shai) dell’Haganah), visitò la Galilea con altri ufficiali del Ministero e parlò con altri funzionari e ufficiali sul campo. Scrisse: “ Il trattamento (in Hiram) degli abitanti arabi della Galilea così come nei confronti dei rifugiati arabi che vivevano nei villaggi della Galilea o nelle vicinanze, è stato di tipo casuale, diverso da luogo a luogo, a seconda delle iniziative di ciascun ufficiale o comandante dei vari dipartimenti governativi: in un luogo hanno espulso la popolazione, in un altro non l’hanno fatto; in un posto accettarono la resa del villaggio, in un altro no; in un luogo fecero delle differenze a favore dei cristiani, in un altro hanno trattato cristiani e musulmani nella stessa maniera, senza distinzioni; in un luogo hanno permesso di tornare nelle loro case ai rifugiati che in un primo momento della conquista erano fuggiti e in un altro hanno rifiutato". E Shimoni ha aggiunto il 18 novembre: "Troppi cuochi in cucina ... (i comandanti dell'IDF) non avevano ordini chiari in mano o alcuna chiara politica in materia di condotta nei confronti degli arabi". È vero che dopo la visita di Ben Gurion al quartier generale del Fronte Nord alla fine dell'operazione Hiram, un ordine (vago) era stato rilasciato alle brigate dell'esercito a nome di Moshe Carmel, comandante del fronte, per "aiutare" gli abitanti a lasciare le case , ma la direttiva è arrivata troppo tardi e non è stata condotta alla lettera. In un posto hanno espulso, in un altro non l’hanno fatto. Manna afferma che i massacri nell'Operazione Hiram sono stati organizzati "dall'alto" e mirati a far fuggire gli arabi. 1) Manna non ha documenti che dimostrino una tale connessione 2) in molti dei villaggi in questione, l’esodo in massa o l'espulsione non si sono verificati a seguito dei massacri né a Dir al-Assad né a Majdal Krum ( Manna è fuorviante riferendosi al proprio villaggio su questo punto: non ci fu espulsione da Majdal Krum) né in Arab al-Mawasi né in Jish né in Hule. È possibile che i comandanti sul campo avessero pensato che il massacro avrebbe portato alla fuga di massa; forse un impulso alla vendetta, o semplicemente la malvagità, potevano essere dietro a questi eccidi. Non ci sono prove in un senso o nell'altro, a parte il fatto che le unità di tre diverse brigate (Golani, Settima e Carmeli) hanno effettuato una serie di massacri durante quelle settimane.

Ci può essere certamente il sospetto, ma sulla base del materiale disponibile per ogni ricercatore, è impossibile giungere a una conclusione decisa come fa Manna. Ma è vero che gli autori di tali crimini non sono stati puniti (grazie, a quanto pare, all'intervento del ministero della Difesa). Si deve inoltre notare che dal giugno 1948 la politica del governo israeliano è stata quella di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese e questa politica è stata applicata durante tutta la guerra e poi in una sistematica attuazione, anche se decine di migliaia di rifugiati riuscirono ad infiltrarsi nel Paese o furono autorizzati a tornare nel quadro della "riunificazione familiare" o grazie ad accordi particolari. Ad esempio, il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli abitanti di Eilabun, ritornarono grazie a tali accordi e alla fine venne loro data la cittadinanza israeliana, come fu per i genitori di Manna, che si erano infiltrati nel Paese dopo un lungo periodo di tempo trascorso nel campo profughi di Ain al-Hilweh in Libano.

'Successo parziale'

Fu così che alla fine della guerra, 125.000 arabi erano rimasti nello Stato d'Israele e alla fine del 1949, erano 160.000, la maggior parte di loro nel Nord. Manna non spiega in che modo questo sia accaduto, a parte il menzionare i 20.000-30.000 che vennero cooptati nella popolazione del Paese con l'annessione dello Stato del "triangolo", che si estende da Umm al-Fahm a Kafr Qasem, nel maggio del 1949. Manna scrive che fecero di tutto per "sopravvivere" (collaborando con le autorità, dimostrando comportamenti ossequiosi, nascondendosi nelle grotte nei pressi dei loro villaggi e così via). Non spiega perché, se fosse esistita una politica di espulsione, non sia stata applicata, perché l'esercito e la polizia non hanno semplicemente espulso gli arabi rimasti, villaggio dopo villaggio, città dopo città e abbiano lasciato nelle loro case anche un grande numero di arabi ad Haifa, Akko e Giaffa, molti di loro musulmani. Per quanto riguarda Nazareth, dove la maggior parte della popolazione araba era rimasta, Manna osserva giustamente la sensibilità israeliana all'opinione pubblica nel mondo cristiano.

Ma cosa succede a Majdal Krum? A chi nel mondo esterno sarebbe importato se gli abitanti del villaggio di Manna o dei villaggi vicini - Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, tutti oggi grandi borghi e villaggi, fossero stati espulsi verso la fine di ottobre 1948? Nell'estate del 1948, l'IDF raccomandò al governo di far evacuare abitanti di Akko. Perché, se l'espulsione era effettivamente politica, perché non furono espulsi fuori dal Paese? Forse Ben Gurion aveva paura del suo Ministro delle Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose alla sradicamento degli abitanti di Akko)? Non esiste alcuna spiegazione per tutto questo, a parte l'inesistenza di una qualsiasi politica di espulsione, e anche se Ben Gurion e molti altri volevano che nello Stato ebraico rimanesse il minor numero possibile di arabi, certamente non c'era alcuna espulsione sistematica come afferma Manna. Non erano le "fedeltà" degli abitanti dei villaggi che impedivano la loro espulsione; avessero avuto l'ordine di espellere, avrebbero dovuto andarsene (come accadde a Cesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi dove agli abitanti era stato ordinato di andarsene). "Nonostante i molti sforzi da parte dell'esercito e di altri per espellere gli arabi dalla zona, il successo è stato solo parziale", scrive Manna. Parole senza alcun senso. Quando qualcuno sta puntando un fucile contro di te e la tua famiglia e ti dice di andartene, specialmente dopo aver già ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna sono semplicemente non serie. L'autore ha contribuito significativamente al discorso sugli arabi d'Israele nel porre l’accento sull'influenza della Nakba sulla loro vita e sulla loro prospettiva negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state interiorizzate da molti ebrei in Israele. Ci sono nel libro un certo numero di momenti in cui Manna critica la propria gente. Nel descrivere le azioni degli arabi nella rivolta 1936-1939, ad esempio, li accusa di commettere "gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, di dare alle fiamme campi e distruggere le proprietà .... Il terrorismo è stato impiegato anche all'interno della comunità araba stessa, soprattutto contro chi era contrario alla rivolta ". Inoltre scrive che i leader della rivolta, incluso Haj Amin al-Husseini, hanno assunto "posizioni estreme e senza compromessi, che hanno causato gravi danni" ai palestinesi. Tuttavia, questi lampi d’illuminazione critica sono abbastanza rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (e i loro storici) dicendo che non hanno ancora condotto una "discussione critica e seria della storia della Nakba e delle sue ramificazioni". Credo abbia ragione.


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