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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
30.04.2017 La storia di Klaus, perseguitato nel lager e al ritorno a casa perché omosessuale
Recensione di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 30 aprile 2017
Pagina: 26
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Perseguitato dopo il lager»

Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 30/04/2017, a pag. 26, con il titolo "Perseguitato dopo il lager", la recensione di Giulio Busi a "Io sono vivo e tu non mi senti", di Daniel Arsand.

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Giulio Busi

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La copertina (Codice ed.)

Potrebbero quasi sembrare segnali di navigazione. Nei prontuari dei campi di concentramento del terzo Reich campeggia una sfilza di triangoli, allineati con ordine, e distinti solo dal colore. Rosso per politico, verde per delinquente, blu per migrante, viola per testimone di Geova, rosa per omossessuale, nero per asociale. Una striscia sovrapposta al triangolo indica la recidiva. L'incrocio con il triangolo giallo, con la punta rivolta verso l'alto è segno che, chi lo porta, ha il doppio attributo d'essere ebreo e detenuto politico, omossessuale, migrante...

Se è un codice di navigazione, il fiume è quello del terrore, dell'umiliazione, della brutalità. Nella sua ossessione per l'ordine, il nazismo ha prodotto geroglifici carcerari, cuciti sulle divise dei prigionieri, e sempre accompagnati dal numero d'internamento. Alcuni abbinamenti tra colore e denominazione paiono casuali. Altri sono più intuitivi, come il rosso, bandiera del socialismo e del comunismo. O il rosa, in spregio per l'effeminatezza di chi ne viene contraddistinto. È difficile fare il conto di quanti omossessuali siano stati arrestati e seviziati, tra il 1933 e il 1945. Alcune stime parlano di 15mila vittime, ma il grande muro contro cui s'è infranta questa persecuzione nella persecuzione è il silenzio.

In giro per la Germania, in anni recenti, sono state poste targhe in memoria, a forma di triangolo rosa, con un motto significativo, "Totgeschlagen, Totgeschwiegen". Lo si potrebbe tradurre, a senso, "picchiato a morte, taciuto a morte". La rimozione collettiva, il perdurare delle stimmate giuridiche (il paragrafo 175 del codice penale, sugli atti omosessuali, fu mantenuto, nella formulazione introdotta durante il nazismo, fino al 1969), il mancato risarcimento economico delle vittime omossessuali, sono capitoli di un libro nero di cui la Germania ha preso coscienza troppo tardi e in maniera lacunosa.

Ci sono vari modi per ricordare. Oltre alla memoria dei testimoni diretti, ormai tutti scomparsi, e al lavoro degli storici, si può raccontare, dire, narrare. Come il silenzio è intessuto di fili diversi - indifferenza, odio, superficialità - così la reminiscenza non è mai d'un solo colore. Si può strappare il sudario della non-parola anche con un romanzo. La letteratura è antichissimo antidoto all'oblio. Talvolta può persino risvegliare chi è stato "taciuto a morte". Klaus Hirschkuh è rimasto sepolto, per quattro anni, a Buchenwald. Se è sopravvissuto, lo deve alla stravagante volontà del fato. Nel novembre 1945, scheletrico, terrorizzato, vivo, torna nella sua Lipsia.

Io sono vivo e tu non mi senti, di Daniel Arsand, fluttua nel vuoto del secondo dopoguerra. In macerie la città e la Germania, in frantumi l'io che narra, malata, forse irrimediabilmente, l'umanità intera. Il monologo a mezza voce del protagonista si spezza di continuo, con schegge di frasi che volano in ogni direzione. Il lettore, spaesato da una prosa molto cruda, "sente" il personaggio, più che capirlo. Da comprendere c'è ben poco, se non che Klaus, appena più che adolescente, ha amato un altro giovane. Arrestato, umiliato, violentato - se si volta indietro vede il campo, i cani, la morte dei compagni. E se guarda in avanti, riesce a distinguere solo altri lupi, ancora morte, eterno disprezzo. È senz'altro questa la parte più riuscita dell'opera, ferro annerito di distruzione, in cui il doppio tono - scempio sessuale e annientamento della personalità - trova migliore esito narrativo. Frasi brevissime, spesso sfilze di sostantivi, ritmati come passi, ben rendono questo io disarticolato, che non sa più da che parte appoggiarsi - «tutto, davvero tutto, era fatto di rottami, brandelli di parchi, pezzi di viali, frammenti di una storia crollata, finita».

Arsand mette la vicenda sotto l'insegna dell'impossibilità. Anche se ritrova casa, sebbene i suoi siano sopravvissuti, sappiamo da subito che il ritorno è, per Klaus, irrealizzabile. Al di là dell'affetto e dei convenevoli, la sua stessa famiglia non è disposta a riprenderlo. «All'inizio della guerra, in un certo senso lui li aveva degradati attraverso i suoi comportamenti». Il perbenismo borghese è rimasto immutato. Prima, dopo il conflitto, sempre. I nazisti sono venuti ad arrestarlo, l'hanno martoriato, sono stati spazzati via. I pregiudizi rimangono, eterni. Klaus, appena riprese le forze, lascia per sempre la città natale. Il viaggio, a piedi e in treno, verso la Francia, assieme a un compagno di sventura, è una linea a zig-zag tra estraneità, illusione, fatica. Eppure, a ogni chilometro le frasi si fanno un poco più coerenti, la piena degli incubi s'attenua. Sono cambiamenti dapprima impercettibili, che lentamente mutano il ritmo del libro. Parigi sembra un porto sicuro. Dopo i primi stenti, un mestiere, un tetto, un po' di soldi sul conto corrente. Qualche avventura fugace, alcune passioni, e finalmente un amore. Come si ritorna dall'oltretomba? A tappe, un passo dopo l'altro, da un'isola alla successiva. E se all'inferno si è finiti per tenerezza, perché un maschio non ne può desiderare un altro, sarà davvero possibile approdare alla riva, una volta per tutte, in pace?

Arsand ha il coraggio di divagare. La narrazione si dilata fino alla maturità e alla vecchiaia, vien traslata dalla Germania alla Francia, passa dall'orrore alla normalità. Quando si sfogliano le ultime pagine, ci si aspetterebbe un epilogo, se non consolante, almeno pacato. Preparatevi, perché il respirò si farà invece di nuovo affannato, e la lettura sincopata. «Nel giro di qualche anno sarebbero morti tutti, tutti quelli che erano stati nei campi, dichiarò angosciato e furioso Klaus Hirschkuh. Hirschkuh, la cagna. Non aveva niente della cagna. Era un drago». E Arsand fa buon uso del proprio vantaggio di romanziere. Lo storico è obbligato a separare, distinguere, a marcare le differenze tra violenza nazista e omofobia contemporanea. La narrazione, invece, affastella liberamente allora e ora, nel tempo indefinito dell'io, nell'angoscia che si risveglia senza preavviso. Basta relativamente poco, uno slogan, un indizio di violenza, per ricacciare levittimenella loro personale, minacciosa Ade. Anche senza triangoli che lo delimitino, il flume dei pregiudizi continua ascorrere, limaccioso, rovinoso.

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