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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Ayelet Gundar-Goshen - Svegliare i leoni - 16/03/2017

Svegliare i leoni
Ayelet Gundar-Goshen
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Giuntina euro 17

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La copertina

Dopo un esordio fulminante con il romanzo Una notte soltanto, Markovitch (Giuntina, 2015) che le ha valso il Premio Sapir in Israele e quello Adei-Wizo Adelina della Pergola in Italia, Ayelet Gundar-Goshen, una delle voci femminili di spicco della nuova letteratura israeliana torna in libreria con un piccolo capolavoro letterario, Svegliare i leoni pubblicato in questi giorni da Giuntina. Nata in Israele nel 1982, redattrice per uno dei principali quotidiani israeliani, oltre che autrice di sceneggiature che hanno riscosso successo di critica e premi prestigiosi, Gundar-Goshen è anche psicologa e attivista del movimento per i diritti civili del suo paese.

Se il primo romanzo, ambientato negli anni del Mandato britannico, è un racconto suggestivo, a tratti surreale, che narra vicende intime e storiche con passione e garbato umorismo, con la seconda prova narrativa l’autrice israeliana che discende da pionieri giunti in Palestina nei primi anni del Novecento e da ebrei scampati alla Shoah, si cimenta con un racconto affascinante e ricco di suspense nel quale confluiscono vari generi letterari, dal thriller poliziesco al romanzo psicologico e nel contempo affronta temi di scottante attualità, l’immigrazione clandestina, la corruzione, lo sfruttamento delle donne, senza tralasciare riflessioni profonde sulla famiglia, sulla vita di coppia, sulla fragilità dell’essere umano e sulla sopravvivenza.

“La polvere era dappertutto. Uno strato bianco, sottile, come lo zucchero a velo su una torta di compleanno indesiderata. Si era accumulata sulle foglie delle palme nella piazza principale….copriva i manifesti per le elezioni comunali. Polvere sulle fermate d’autobus; polvere sulla buganvillea che si accasciava ai bordi del marciapiedi, svenuta di sete; polvere dappertutto”.

Siamo a Beer Sheva, la città sorta fra le sabbie del Negev, dove si incontrano le tende dei beduini, i pochi kibbutz rimasti e dove gli abitanti “hanno fatto l’abitudine alla polvere, alla disoccupazione, alla criminalità, ai giardini pubblici disseminati di bottiglie rotte”. E’ in questa città nel sud d’Israele che Eitan Green, abile neurochirurgo, viene esiliato dopo aver scoperto che il professor Zakai, suo stimato maestro, si è fatto corrompere per anticipare gli interventi chirurgici e per impedirgli di denunciare il fatto lo costringono a trasferirsi nello sperduto ospedale di Soroka. Per Eitan è molto difficile accettare il cambiamento nonostante l’affetto della moglie Liat, commissario di polizia, e la presenza dei suoi bambini. Una notte dopo un turno di lavoro particolarmente pesante decide di deviare dal suo tragitto abituale e lancia la jeep rossa, dono della moglie, su un terreno scosceso ascoltando con un senso di liberazione la musica di Janis Joplin e ammirando la luna bellissima che illumina la notte.

“Stava giusto pensando di non aver mai visto una luna più bella, quando ha investito l’uomo. Per un momento dopo il tonfo, ha pensato ancora alla luna ma poi ha smesso di colpo, come una candela spenta da un soffio”. Non si è accorto del giovane eritreo che camminava lungo il ciglio della strada ma quando scende dalla macchina, con una sorta di straniamento e la speranza di vederlo rialzare, capisce subito che l’uomo con la testa spaccata è ormai agonizzante. In pochi secondi Eitan deve prendere una decisione: portarlo all’ospedale con le conseguenze del caso oppure lasciarlo morire? In poche righe l’autrice, con rara sensibilità psicologica, coglie il dilemma che attanaglia Eitan e ci pone velatamente una domanda: “Tu cosa avresti fatto?” Eitan fugge e da quel momento la sua vita prende una piega disastrosa gettando lui e la sua famiglia in un incubo di menzogne, omissioni e progressiva perdita di fiducia da parte della moglie nei confronti di quell’uomo che molti anni fa ha sposato con la certezza di conoscerlo fin nel profondo. Il mattino seguente Eitan si ritrova a fare i conti non solo con un gesto di cui non si sarebbe creduto capace ma anche con Sirkit, la moglie dell’eritreo investito, una donna alta, snella dagli occhi di velluto che arriva nella accogliente villetta alla periferia residenziale di Omer per riportargli il portafogli che aveva perso la sera precedente. Non vuole soldi Sirkit ma il suo silenzio ha un prezzo: Eitan dovrà mettere le sue capacità di medico a servizio di eritrei malati in un’autorimessa abbandonata che nel giro di pochi giorni si trasforma in un ospedale di fortuna.

Eitan, che inizia a rubare medicinali dall’ospedale di Soroka dove lavora di giorno per portarli di notte ai suoi nuovi pazienti, i profughi clandestini feriti o malati che arrivano dall’Africa, entra in contatto con un mondo a lui sconosciuto e si trova a guardare negli occhi l’”Altro” sul quale fino ad allora non aveva posato più di uno sguardo distratto. Nel frattempo la moglie Liat incomincia a indagare sull’incidente in cui ha perso la vita l’eritreo e non credendo che il colpevole sia un giovane beduino di sedici anni è determinata ad andare a fondo della faccenda. Pagina dopo pagina l’autrice orchestra una trama dal ritmo serrato, avvincente e ricca di suspense fino al finale mozzafiato, per nulla consolatorio ma che lascia intravvedere una luce nelle zone oscure dell’animo umano.

Oltre al piacere che scaturisce dalla lettura di un romanzo così coinvolgente, la seconda riuscitissima prova di Ayelet Gundar-Goshen offre al lettore la possibilità di confrontarsi sia con tematiche attuali come l’emigrazione clandestina, una realtà che riguarda tutto l’Occidente, sia con una dimensione più intima, privata della realtà e getta luce con accurata introspezione psicologica sulle dinamiche della vita di coppia, sui segreti che si celano in una famiglia e sul desiderio spesso inconscio di non voler “sapere” di più sul proprio partner, consapevoli che ciò che si è costruito potrebbe andare in frantumi dinanzi ad una verità troppo dolorosa. Con freschezza espressiva, senza enfasi o retorica, l’autrice descrive in modo efficace l’ambiente che circonda i migranti clandestini, lo sfruttamento, i soprusi, i tabù oltre che la difficoltà delle donne nel ribellarsi a un destino che le vuole sottomesse.

Intensa e commovente è la figura di Sirkit i cui occhi scavano nel profondo dell’animo umano e ci mostrano una realtà dura sulla quale spesso vorremmo sorvolare; non è un angelo Sirkit ma la sua fragilità, anche morale, ha radici profonde in un vissuto di sofferenze e perdite dolorose. Nella delicatezza con cui Ayelet Gundar-Goshen ritrae la giovane eritrea si coglie l’eco dell’ultimo straordinario libro di Melania Mazzucco “Io sono con te” che racconta la storia vera di Brigitte, una migrante fuggita dal Congo e giunta, dopo una lunga odissea, alla stazione di Roma: sono storie necessarie perché guardando negli occhi queste persone, specchiandoci nelle loro storie, ritroviamo la forza disperata che ci rende tutti simili quando, colpiti dalla vita, tentiamo di rimetterci in piedi. “Svegliare i leoni” è un romanzo dalla forza dirompente, che sgretola certezze e guardando la realtà senza ipocrisie ci aiuta riflettere sulle potenzialità che ognuno di noi possiede per fare di questo mondo un luogo migliore in cui vivere.

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Giorgia Greco


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