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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Dan Pagis - Papà - 13/01/2015

Papà
Dan Pagis
Postfazione di Federico Del Bo
Giuntina euro 10

A 16 anni ha cancellato il proprio nome «latino» per sempre, e nessuno sa più quale fosse. Lo ha buttato via, insieme con quel campo di concentramento nazista in Transnistria dove nel 1941 era stato deportato: lui e tutti quanti i 10 mila ebrei della nativa Radauti (allora Bucovina e oggi Romania). Tre anni dopo, era riuscito a fuggire dal lager, ma ne aveva impiegati altri due per potere raggiungere finalmente, nel 1946, la agognata Terra di Israele. Ed è in quel momento, appena sbarcato, che sceglie di rinascere: da lì in avanti lui si chiamerà Dan, nome ebraico tra i più comuni, tanto forte è il desiderio di essere «assorbito come l'acqua nella sabbia» dal suo nuovo mondo. Così Dan Pagis si stabilisce in un kibbutz, si appropria della lingua, di una laurea e diventa uno dei più importanti poeti israeliani contemporanei, oltre che critico, specialista in letteratura ebraica medievale e docente alla Hebrew University di Gerusalemme. La sua opera, purtroppo, è praticamente sconosciuta in Italia. Meno male che adesso Giuntina ha pubblicato almeno il suo bellissimo Papà (traduzione di Federico Dal Bo, pagine 96, 10 euro).

Un piccolo collage di episodi, scritto quando suo padre muore. Pagis racconta il suo rapporto con quell'uomo così diverso da lui, ritrovato in Israele dopo 12 anni di separazione e con il quale colloquio e affetto sono sempre rimasti bloccati sotto strati di ghiaccio. Formalmente in prosa, in realtà Pagis con Papà regala poesia sublime. Alla sua maniera: linguaggio semplice, secco, potentissimo; però non c'è la fredda rabbia dei suoi versi sull'Olocausto, quella protesta rivolta anche a Dio. Qui c'è un dialogo che nasce dalla morte e soltanto grazie ad essa fa vivere ciò che non era mai stato: un confronto che per la prima volta produce intimità. Sbocciano le domande mai fatte, e anche le risposte; c'è vicinanza, confidenza, scherzo persino, e amore; uno scambio spirituale che dura 5 anni, fino alla morte del poeta, nel 1986. Perché è vero, come ha scritto Kafka nella celebre Lettera al padre, che non tutti i bambini hanno la resistenza e il coraggio di cercare a lungo l'affetto sino a trovarlo». Ma è altrettanto vero che ci sono altri bambini i quali, se pure ormai adulti e contro ogni razionalità, continuano a cercare l'affetto del genitore. Per sempre. E proprio non fa differenza che quello non sia più fra i vivi.

Daria Gorodisky - Il Corriere della Sera


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