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Giorgia Greco
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Giorgio Van Straten Storia d’amore in tempo di guerra 14/04/2014

Storia d’amore in tempo di guerra               Giorgio Van Straten
Mondadori                                                           euro 18


Una storia (apparentemente) tradizionale, Storia d’amore in tempo di guerra, raccontata con una lingua quieta. Un alfabeto consono alla formazione (bibliotecario), alla professione (ricercatore) e al carattere dell’alter ego di Giorgio Van Straten sulla pagina: «Ho pazienza, precisione, costanza».
Quale filo lega un nonagenario politico democristiano, in vena di confessarsi al registratore, e un’anziana donna, ebrea, emigrata in Argentina nel 1945, finita la guerra, epperò mai dimentica di Roma, del Ghetto e dintorni? Tale Enrico Foà, la prima passione di lei, una citazione (casuale?) nel tempo ritrovato di lui.
Aspettando il 16 ottobre 1943, la deportazione degli ebrei romani rievocata da Giacomo Debenedetti. Prima e dopo quel tragico giorno. Un groviglio di destini. Un fiotto di rebus che «ad ora incerta» deflagreranno. Chi è Antonio Manca, chi era quando ancora non agiva nella clandestina forza d’ispirazione cattolica? Perché nomina Enrico Foà? Perché Foà che amò, riamato, Miriam, improvvisamente scomparve? Quale segreto custodiva, giungendo a sacrificarvi la fidanzata? Davvero, col senno di poi, la sua missione era così necessaria? E dove finì?
Giorgio Van Straten si affretta lentamente nell’Urbe sotto il tallone nazifascista. Artefice di una «inchiesta» che, va da sé, nobilita le ragioni della letteratura (non tragga in inganno lo storico o aspirante storico che la conduce): «A volte converrebbe essere scrittori invece che storici, pensavo. Quante vite erano scomparse, quante storie simili si erano volatilizzate, lasciando solo una vaga traccia...». Non a caso Emanuele Fink, l’amico di Foà, che di Foà orienterà inesorabilmente il desino, dato tra i martiri delle Fosse Ardeatine, non compare nell’elenco delle vittime. Non a caso un Antonio Manca non c’è nel gotha della scudocrociata Repubblica.
A Van Straten tocca immaginare, assaporando la libertà e patendo l’angoscia di tale facoltà. La hall del vecchio albergo in cui il ricercatore incontra Miriam simboleggia l’operazione «medianica» propria dello scrittore: «Gli arredi mai cambiati sembravano aver assorbito il lento trascorrere del tempo, il fumo di milioni di sigarette, la polvere che era penetrata a poco a poco nelle fibre delle stoffe di quei divani e di quelle poltrone, nonostante mille cameriere li avessero ripuliti». Già: oltre il tempo, oltre il fumo, oltre la polvere, quale teatrò andò in scena?
È un ventaglio di distinguo Storia d’amore in tempo di guerra. Fra Storia e vita, innanzitutto. Miriam avverte: «La Storia è come un riassunto ben fatto. La vita invece è il libro intero». La Storia dice che cosa era importante, la vita è irriducibile alle gerarchie. Per esempio: «Ti può dare un motivo di felicità anche il giorno prima della tua deportazione». La Micòl di Bassani (c’è una Micòl pure nelle pagine di Van Straten) non aborriva il futuro, ad esso «preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui”»?
Storia e vita. E Storia e memoria. La Storia che è il percorso. E la memoria che, contemplando l’oblio, riflette Miriam, può «cancellare» il percorso come succede nella fiaba di Pollicino, con le molliche di pane mangiate dagli uccellini. La memoria non si può comandare...».
L’oblio, non il perdono. Lo stesso Enrico Foà, come si scoprirà avanzando nella Storia d’amore in tempo di guerra, non lo ha forse indicato e offerto come unguento smemorandosi a sua volta, ossia mascherandosi per il resto dei suoi giorni, salvo un lapsus? «Cos’è che ha da fare l’ottimo storico? - ci si interroga nel Giardino dei Finzi-Contini -. Proporsi, sì, come ideale, il raggiungimento della verità, senza però mai smarrire per strada il senso dell’opportunità e della giustizia». Non è la lezione che Miriam & C. dànno al loro autore? L’oblio connaturato al tribunale del tempo non può essere una forma di giustizia o almeno un’opportunità? Il rovello che è l’interrogativo...

Bruno Quaranta
La Stampa


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