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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Ari Shavit, La mia terra Promessa 31/03/2014

La mia terra Promessa                Ari Shavit
Traduzione di Paolo Lucca
Sperling & Kupfer                           Euro 18,90

Il puzzle che l'israeliano Ari Shavit, classe 1957, gran commentatore e intervistatore del quotidiano della sinistra Ha'aretz, firma d'eccellenza sul New Yorker, compone nello scrivere La mia terra promessa (Sperling&Kupfer, trad. Paolo Lucca, pagg. 459, euro 18,90), è complesso, spesso disturbante, o commovente, comunque forte. Non c'è niente di facile quando si parla di Israele e sionismo. Shavit scrive di fatto una contrastata lettera d'amore al suo paese, fuori da ogni propaganda, narrandone il miracolo e le colpe, cacciandosi in spirali di contraddizioni apparentemente senza uscita, mandando al diavolo tutti i dogmi. A partire dalla premessa bifronte: “da quando ho memoria, ricordo la paura”, dell'onda lunga della Shoah, degli arabi nel '67 e soprattutto nel '73, di Saddam nel '91, del terrorismo palestinese, di Hezbollah, Hamas, Iran..., e, accanto,“da quando ho memoria, ricordo l'occupazione” della Cisgiordania e, fino al 2005, di Gaza a partire dalla Guerra dei Sei Giorni. Se si vuole capire Israele e pensarne il futuro, secondo Shavit, non si può minimizzare né la minaccia (come fa la sinistra, dice) né il controllo dei Territori (come fa la destra).
Ma questo non è un ennesimo libro su israeliani e palestinesi. E' un mosaico squillante e ipnotico che narra tre realtà parallele. Da un lato che Israele è ed è stato uno dei più eccezionali esperimenti politici, sociali, economici della storia contemporanea (dai kibbutz alle start up di oggi, dalla costruzione del paese a quella del reattore nucleare, dal collettivismo all'edonismo di Tel Aviv). Dall'altro che nel '48 si è comportato in modo brutale con i palestinesi. Infine che è circondato da nemici che lo odiano per quel che è, uno Stato ebraico: la fine dell'occupazione dei Territori, per quanto vada assolutamente fatta (interessante il capitolo sui coloni in Cisgiordania), continuerà a trovarsi davanti l'atavico rifiuto palestinese e non risolve i problemi come è importante ridirsi in questi giorni che negoziati e boicottaggi arrivano sulle prime pagine (ed inoltre Shavit, che certo non ama Netanyahu, sostiene che è l'unico a capire il pericolo iraniano): “ogni Atene che non abbia anche in sé un po' di Sparta è senza futuro”.
Per realizzare l'affresco Shavit inizia con il suo bisnonno inglese e sionista, che arrivò in Palestina a fine '800 senza “vedere” gli arabi che vi abitavano: l'urgenza di ritrovare un centro all'ebraismo che stava perdendo identità, e, soprattutto di dare una zattera ai fratelli perseguitati dell'Est Europa lo rese cieco o profetico? Shavit, non ha dubbi. Del resto non ce l'ebbe allora nemmeno lo scrittore Israel Zangwill che era nella comitiva sionista: lui “vide” gli altri e disse che bisognava essere disposti alla violenza “come i nostri padri” biblici.
Violenza, certo, ce n'è stata. Cavalcando con interviste, dati, analisi, tra primi pionieri sensitivamente consapevoli di ciò che incombeva sull'ebraismo europeo, e tra geniali aranceti che cambiavano l'economia, tra lo spirito di rinascita e di giustizia sociale che li anima e i primi fondamentalismi mussulmani, in mezzo allo spirito nazionale ebraico che si rafforzava intorno all'esempio di Masada mentre anche i nazisti si affacciavano dall'Egitto, Shavit arriva alla spartizione Onu del '47, alla Guerra d'Indipendenza in risposta all'attacco dei paesi circostanti, alla cacciata di alcune comunità arabe nel '48, come quella da Lidda, e non lascia niente all'immaginazione, non perdona nulla. Avverte semmai che la leadership di oggi, la società, non sono più coese, e dunque pronte, come quelle di un tempo. Ma sul passato la conclusione è chiara: “se sarà necessario starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Hanno fatto il lavoro sporco che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere”, dice e aggiunge in un'intervista ripresa da Thomas Friedman, “Sebbene sia un mio imperativo morale riconoscere la violenza compiuta, Lidda non rende il sionismo criminale: la storia ha prodotto tanti profughi, anche Israele è fatto di profughi, l'Europa ne ha assorbiti altri, ora sta ai palestinesi superare il loro passato penoso e guardare avanti”. A volte nei puzzle grandissimi e troppo complicati, un maledetto pezzo va perso. Shavit si sente su un baratro, ma vivo, come il suo paese, e “sia quel che sia”.

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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