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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Yehoshua Kenaz, Non temere e non sperare 13/01/2014

Non temere e non sperare                              Yehoshua Kenaz
Traduzione di Shulim Vogelman e Rosanella Volponi
Giuntina                                                                   euro 19

Se un racconto epico sull’educazione collettiva dei figli di Israele, una fotografia quasi chirurgica di un gruppo di reclute israeliane con disabilità minori alla Base di Addestramento 4: siamo nel 1955, e quello è un luogo difficile e reietto per un paese votato, in quegli anni e non solo, a vedere nell’esercito il luogo principe di trasformazione fisica e mentale dell’ebreo diasporico nell’uomo nuovo e combattente di cui il neonato Stato aveva bisogno. Ma non è semplicemente un documento realistico. Non temere, non sperare di Yehoshua Kenaz, uno scrittore nato nel 1937 qui poco frequentato forse per la sua ritrosia ma grande quanto gli altri grandi autori israeliani è un romanzo bellissimo, denso di momenti struggenti e illuminanti, capace di guardare e di entrare profondamente dentro questi ragazzi messi d’un tratto di fronte alla violenza degli istruttori e degli ordini spesso insensati e estenuanti, dentro le loro individualità, gusci e interazioni, dentro la loro riluttanza a divenire squadra e nazione e, al tempo stesso, al loro desiderio remoto di farlo, dentro al rito di passaggio che potrà o spezzarli o farli diventare adulti in un paese che, nelle parole del più idealista dei protagonisti «deve essere tutto un esercito». Un coltello a lama doppia, che chiede anche ai più deboli di sforzarsi oltre il limite dettato da un corpo non perfetto, ma poi finisce per disprezzarli perché non possono diventare veri combattenti, o comunque li induce a vergognarsi (o a crescere ed accettarsi). Fuori da ogni mitologia. Strano punto di vista, strana lente per guardare Israele, quanto di meno conformista si possa immaginare. Eppure ecco il paese che ci si apre davanti come un affresco di Piero della Francesca, una visione corale densa di piccole scene da mettere a fuoco, con fulminanti va-riazioni di voci narranti (prima quella di uno dei militari, un io ashkenazita solitario di buona educazione chiamato Melabbes con i cui occhi incontriamo fatti e persone, poi una voce onnisciente che ci racconta il dentro ed il fuori di ognuno, e infine un incrocio tra i due criteri, un metodo sinuoso e musicale che Kenaz, gran conoscitore di letteratura francese — ha frequentato la Sorbona a Parigi, e tradotto tantissimi, da Stendhal a Simenon — , rimarca che «Proust l’ha già usato». Una scelta che permette di mettere insieme e scrutare da vicino i personaggi più disparati e le loro dinamiche, ragazzi dai valori e le provenienze sociali e etniche conflittuali, ashkenaziti troppo pieni di sé e certi di essere gli unici ad aver creato lo Stato, ebrei arrivati dai paesi arabi che si sentono — e sono — sempre guardatidall’alto in basso — , immigrati recenti dall’Est Europa che devono ancora capire dove sono, religiosi e laici, kibbutznik sognatori, individualisti ambiziosi, sopravvissuti alla Shoah, sabra nati nella Terra Promessa, gerosolimitani, tel-avivini, gente proveniente da piccoli centri, artisti, ignoranti, colti, c’è perfino un criminale. Ma non vi immaginate né un’epopea socio-politica, né un quadro macchiettistico con tante personalità abbozzate. No, noi alcuni di questi giovanotti li conosceremo bene, forse più di quanto si conoscano loro stessi. I contrasti tra i singoli e il contesto collettivo in un universo chiuso si dipana anche uscendo dai confini della Base e portandoci nei ricordi e nei ritorni a casa, tra le loro famiglie, i loro amori. C’è Alon: la sua generosità, la sua fede nello Stato(suo padre ashkenazita è stato ucciso nella Guerra d’Indipendenza del ‘48) e nel rapporto col kibbutz e la bellezza (quante volte ricorre questa parola!) e la sua ragazza sono tanto forti quanto la sua incapacità di accettare la diminutio questo reparto minore: semplicemente non vuole guardare in faccia il suo destino. C’è Micky, un giocatore professionista di football, una specie di star nazionale, costretto a ritirarsi per un difetto cardiaco: disincantato, di ottima provenienza sociale, non ha mai fronteggiato la vita né le donne: la nobiltà d’animo di Alon lo sconvolge. C’è Avner, un sefardita di umilissime origini, un seduttore marcio, sempre a pensare alle donne e rifiutare ogni disciplina, anche se danneggia i compagni. Quando guardano uno stormo volare compatto in cielo: Melabbes commenta «sembra una fuga di massa da un disastro», Alon «Per niente. È fantastico... ognuno conosce il suo posto... sono una formazione perfetta». Micky «È solo istinto,... non sanno nemmeno cosa stanno facendo. E perché». Accanto molte comparse importanti. Tra loro Miller, sopravvissuto alla Shoah da cui gli altri si tengono a distanza. Non ce la farà. E non ce la farà nemmeno Rachamim, un marocchino fuori posto. Yossi l’artista invece farà a cazzotti col suo raffinato individualismo, ma qualcosa infine capisce del farsi squadra. La vita aspetta corposa chi amaramente supera l’ostacolo. Come Zero Zero, un rumeno con mille guai fisici e economici. Gli nasce un figlio, «Sarà un sabra» dice mentre, fuori di sé dall’emozione, sta per andare a casa «lo tirerò su come uno di loro, quei bambini forti, belli... darò la mia anima per lui, la mia vita schifosa perché cresca bene». Ora pensa che ad allenarsi si può riuscire a correre a lungo quanto gli altri.

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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