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Angelo Pezzana
Israele/Analisi
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Risposta a David Grossman 03/08/2012

Questa mattina Haaretz pubblica un editoriale di David Grossman, dal titolo “Sul silenzio”, non è chiaro a chi è indirizzato. Non a Netanyahu, Grossman non avrebbe nulla in contrario, se però dicesse ciò che lui vorrebbe sentire. Sono altri, quelli ai quali rimprovera di rimanere in silenzio, sono quelli, ministri e alti ufficiali della difesa, che, secondo lui, in privato esprimono una forte opposizione alla linea dura di Bibi sull’Iran, ma che poi tacciono in pubblico su quella politica del Premier che Grossman definisce ‘megalomaniacale’. Il grande scrittore, come tutti gli intellettuali che si sentono interpreti del proprio paese, è disturbato nelle proprie profezie, da un governo che però ha ottenuto una maggioranza consensi in parlamento e che dovrebbe almeno consigliare un po’ di prudenza a chi, come Grossman, continua ad attribuirsi un ruolo politico che la democrazia non gli ha affidato.
David Grossam è un eccellente narratore, ama il suo paese, siamo sicuri della sincerità delle sue opinioni, ma non è lui ad avere la responsabilità delle decisioni politiche, quelle spettano al governo. Grossman è sicuro, anzi, sicurissimo, che l’America di Obama non permetterà all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare, così come, nel delegittimare la politica di Netanyahu, ironizza, chiarendo così l’attributo di ‘monomaniacale’ che gli ha cucito addosso, mette in ridicolo la concezione di Israele quale ‘nazione eterna’, ‘popolo eterno’, in confronto all’America, potere temporaneo ed effimero, come lo sono stati gli Assiri e Babilonia, Grecia e Roma, è questo il modo di ragionare di Bibi. Ricorda come ‘Time’ avesse dedicato una copertina a Netanyahu definendolo “King Bibi”, Grossman, e altri intellettuali come lui,sono quasi come ipnotizzati dai settimanali occidentali che criticano Israele. Ma Grossman, per essere un critico della politica, commette un errore imperdonabile di valutazione dell’avversario, del nemico vero, dell’Iran. Lui mette in dubbio che un attacco possa cancellare la scelta nucleare, quindi meglio aspettare. Ma Grossman dimentica l’opposizione interna iraniana, quella che è arrivata a farsi uccidere per le strade mentre Obama ritirava il suo aiuto, una opposizione interna naturale alleata di un possibile rovesciamento del governo dei mullah. A Grossman però gli iraniani non interessano, come sembra non interessargli neppure l’eventualità che le minacce, finora verbali, possano tramutarsi in reali. La guerra è l’ultima scelte, esaurite tutte le altre. La pace diventa per lui un valore supremo, non importa quale sarà il prezzo da pagare. Duemila anni di diaspora non gli hanno insegnato nulla.

Angelo Pezzana
in alto a destra, David Grossman

Ecco l'editoriale di David Grossman, uscito anche su Repubblica di questa mattina, a pag. 1-31 (titolo "L’Iran, re Bibi e il 'popolo eterno' di Israele"):
Barack Obama             Bibi Netanyahu


Mahmoud Ahmadinejad

Ecco un possibile scenario: Israele attaccherà l’Iran contrariamente alla ferma presa di posizione del presidente Obama che quasi supplica di lasciare questa incombenza agli Stati Uniti d’America. E questo perché? Perché Benjamin Netanyahu ha una linea di pensiero e una visione storica secondo le quali — riassumendo a brevi linee — Israele è il “popolo eterno” mentre gli Stati Uniti, con tutto il rispetto, sono una specie di Assiria o di Babilonia, di Grecia o di Roma dei giorni nostri. Vale a dire: noi siamo per sempre, destinati a rimanere, mentre loro, nonostante tutto il potere che possiedono, sono momentanei, transitori, motivati da considerazioni politiche ed economiche limitate ed immediate, preoccupati delle ripercussioni che un eventuale attacco potrebbe avere sul prezzo del petrolio e sui risultati elettorali. Noi invece sussistiamo nella sfera dell’“Israele eterno” e portiamo in noi una memoria storica in cui balenano miracoli e imprese di salvezza che vanno oltre la logica e i limiti della realtà. Il loro presidente è “un’anima candida” che crede che i nemici ragionino in maniera razionale come lui mentre noi, già da quattromila anni, ci troviamo ad affrontare le forze più cruente e gli istinti umani più incontrollabili e oscuri della storia e sappiamo bene come comportarci per sopravvivere in queste
zone d’ombra.

C’è chi si sentirebbe in ansia dinanzi a una simile descrizione ma non è da escludere che il primo ministro la ritenga appropriata e persino elogiativa nei suoi confronti. Il capo del governo gode, come si sa, del supporto di un’ampia coalizione e non deve fare i conti con una forte opposizione. In un certo senso agisce come un leader unico – “re Bibi”, l’ha definito la rivista
Time–e ciò significa che nel momento in cui Netanyahu dovrà prendere una decisione cruciale, il futuro e il destino della popolazione israeliana dipenderanno più che altro dalla sua visione del mondo estremista, inflessibile e radicata.
In altre parole molti cittadini israeliani appartenenti all’intero arco politico che non vogliono che Israele attacchi l’Iran – e anche una parte dei capi dei vari settori della sicurezza che si oppongono a una simile iniziativa – sono oggi prigionieri, in maniera inequivocabile, delle ermetiche convinzioni del primo ministro.
Netanyahu ha fedeli partner di governo che condividono con lui opinioni e scelte. Il vantaggio di questi partner rispetto ai cittadini che si affidano alle loro decisioni sta nel fatto che, all’apparenza, costoro “conoscono tutti i fatti e le valutazioni”. È vero che così funziona un governo democratico ma i cittadini di Israele hanno ormai imparato sulla propria pelle che i loro leader non sono immuni da gravi errori e, come ciascuno di noi (e forse anche un po’ di più), sono inclini a fallimenti o a essere
trascinati dall’euforia del potere.
Trattandosi quindi di una questione tanto vitale abbiamo il diritto e il dovere di fare ripetute domande, o almeno di esigere che chi prende le decisioni ponga a se stesso delle domande e risponda onestamente: quelli che dovrebbero sapere, sanno davvero? E sarebbero in grado (sempre che qualcuno lo sia) di conoscere e fornire “tutti i fatti e le valutazioni” coinvolti in una tale azione? Sono persuasi al di là di ogni dubbio di non esagerare nel considerare la capacità dell’esercito israeliano di risolvere definitivamente il problema nucleare iraniano? Non sottovalutano forse la forza degli iraniani? Sono completamente
sicuri che se Israele bombarderà l’Iran gli iraniani non abbiano a disposizione un’atomica? E se ce l’hanno, che non la useranno contro Israele?
In altre parole la “conoscenza” dei nostri leader si basa solo ed esclusivamente sui fatti oppure è distorta e influenzata da ansie, desideri ed echi di traumi del passato che nessuno è esperto nell’ingigantire quanto il capo del governo? E, la cosa più importante:
i nostri leader capiscono che la decisione di attaccare una potenza come l’Iran (peraltro contrariamente all’opinione degli Stati Uniti) potrebbe rivelarsi il più grosso errore mai commesso da un governo israeliano?
Chi è a favore di un intervento contro l’Iran si muove lungo un asse i cui estremi sono “o la bomba atomica iraniana o il bombardamento dell’Iran” e dal quale pende un’insegna: “Per sempre divorerà la spada”
(II Samuele, 2, 26).
I leader israeliani sono talmente prigionieri di questo ragionamento automatico che sembra che, dinanzi a qualunque dilemma o a qualunque decisione
relativa alla sicurezza, un verdetto celeste o una legge di natura condanni quasi sempre Israele a muoversi solo ed esclusivamente tra “o la bomba o il bombardamento”. Ad aggredire o a essere aggredito. Certo, un Iran dotato di armi nucleari rappresenta un pericolo reale, non è una paranoia del governo israeliano. Ma nella situazione attuale esistono altre direzioni di movimento, altre possibilità di azione – o di inazione. E naturalmente esiste l’inequivocabile promessa americana che l’Iran non avrà armi nucleari. Ma Israele sembra già essere al culmine di un processo in cui agiscono forze ben note e più potenti di lui, quasi primordiali, alimentate dalla percezione storica ricordata in precedenza che fa sì che di solito i timori si realizzino e che calamita verso situazioni di minaccia esistenziale.
Quindi, con maggiore enfasi, si pone la domanda: perché ministri e alti dirigenti di tutti i settori della sicurezza – quelli ancora in carica, non solo quelli del passato – non si alzano a dire la loro? Quelli che in
conversazioni private si oppongono all’iniziativa di un attacco, che ritengono che un’aggressione israeliana prorogherebbe soltanto di poco la nuclearizzazione dell’Iran e temono le conseguenze a lungo termine di un’aggressione simile per Israele, per la sua stessa esistenza. Perché non si alzano adesso, quando ancora è possibile, per dichiarare: noi non collaboreremo con questo delirio megalomane, con questa disastrosa concezione messianica? La fedeltà al “sistema” è forse più importante della fedeltà a ciò a cui hanno dedicato la vita: la sicurezza e il futuro di Israele? Un’iniziativa di questo tipo sarebbe il gesto più significativo che potrebbero fare oggi per Israele, per la sua sicurezza e il suo futuro.
Anche noi cittadini, improvvisamente silenziosi dinanzi alle ombre che si addensano su di noi, raggelati, rassegnati a priori, con gli occhi chiusi dinanzi a ciò che appare di giorno in giorno più minaccioso e frastornante nella sua rapidità, come potremo poi affrontare noi stessi e i nostri figli quando ci domanderanno perché abbiamo taciuto? Perché non siamo usciti a frotte a manifestare nelle strade contro la possibilità di un’altra guerra scatenata da noi? Perché non abbiamo eretto nemmeno una tenda di protesta, simbolica, davanti alla residenza del primo ministro per mettere in guardia dalla catastrofe che ci sta franando addosso? Dopo tutto, parafrasando un verso del poeta Haim Nachman Bialik scritto in un contesto completamente diverso, saremo noi “con la nostra linfa e il nostro sangue a pagare l’incendio”.


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