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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Che cosa è accaduto nel 2011? 09/01/2012

Che cosa è accaduto nel 2011?
Mordechai Kedar
(Traduzione di Yehudit Weisz)


Mordechai Kedar

Nel 2011 sei paesi arabi hanno conosciuto pesanti scosse che hanno determinato la caduta dei loro leader o che li hanno seriamente minacciati. Il processo ha avuto inizio alla fine del 2010 e continua tutt’oggi.

 Tunisia

All’inizio del 2011 un’ondata di ottimismo ha travolto il mondo arabo e la sensazione di essere all’alba di una nuova era si è insinuata nella sfera pubblica, popolare, intellettuale e mediatica. La Tunisia, che solitamente non compariva nelle titolazione dei giornali, si è trovata al centro dell'attenzione dopo la tragedia avvenuta il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi, giovane universitario disoccupato, obbligato per sopravvivere  a vendere verdure al mercato della città di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco a causa di un alterco con una poliziotta che l’aveva schiaffeggiato. Quando egli si era lamentato presso i superiori della poliziotta, lei gli si era rivolta con disprezzo : “sgombra”.

Questo fatto si è trasformato in una manifestazione locale che è stata soffocata con la violenza, secondo i metodi abituali della polizia; questa volta un’ondata di collera si è diffusa tra una folla di tunisini scesa nelle strade al grido di “sgombra” contro il presidente corrotto Zine el Abidine Ben Ali, che ha governato la Tunisia con mano di ferro per 23 anni, vincendo sempre le elezioni con una maggioranza superiore al 90%. Ben Ali ha lottato per un mese per conservare il suo posto al prezzo di centinaia di morti, ma il 14 gennaio è stato costretto a fuggire verso l’Arabia Saudita. Tutto il mondo arabo ha acclamato i tunisini come il primo popolo arabo che si è sbarazzato di un dittatore, per la prima volta nella storia araba moderna. Nelle settimane successive al suicidio di Bouazizi, ci sono state altre 37  persone nel mondo arabo e musulmano che si sono immolate per protestare contro la situazione politica, sociale ed economica dei loro paesi. Le elezioni che hanno avuto luogo in Tunisia in ottobre hanno portato al potere il movimento islamico “Ennahda” con più del 40% dei seggi in Parlamento, e la nuova Tunisia, il cui tasso di disoccupazione supera il 20%, cerca la sua strada tra l’islam e la modernità.

In febbraio, tutti quelli che avevano osservato l’eroismo, il coraggio e la determinazione dei tunisini si erano domandati chi sarà il prossimo sulla lista, poiché era chiaro che il presidente tunisino, sua moglie e i famigliari non erano i soli dirigenti corrotti a governare con crudeltà e senza legittimità.

Egitto

Gli Egiziani furono i successivi: il 25 gennaio 2011, migliaia di giovani, laici, ragazzi e ragazze insieme, sono scesi sulla piazza Al Tahrir (piazza della liberazione dal giogo degli Inglesi ), hanno manifestato con la parola d’ordine “sgombra” e sono riusciti a spingere il Ministro della difesa, Mohamed Hussein Tantawi, lui in persona, a dire, rivolto a Mubarak: “sgombra”, costringendolo alle dimissioni l’11 febbraio. I militari hanno sospeso la Costituzione e hanno concesso sei mesi al governo, fino al mese di agosto, per dare stabilità al paese e trasmettere il potere nelle mani di un governo civile; ma questo periodo di sei mesi non è ancora terminato. I militari hanno nominato un governo di esperti con l’incarico di elaborare “un piano educativo” per la democrazia mediante elezioni parlamentari e presidenziali. Questo processo elettorale si concluderà nel giugno 2012 e fino ad allora, i militari governeranno con durezza per assicurarsi che la Costituzione manterrà le loro prerogative e che non saranno assoggettati ad un governo civile. Ma il risultato prevedibile si è evidenziato al momento delle elezioni libere e relativamente corrette, che hanno dato luogo a ciò che molti avevano già anticipato: l’ascesa dei Fratelli Musulmani, coloro che Mubarak era riuscito sempre a escludere dalle votazioni  per allontanarli dal potere. La vera sorpresa di queste elezioni è stata la percentuale dei Salafiti, estremisti fanatici che vogliono riportare la società egiziana musulmana al VII° secolo, nello stile specifico di vita dei maestri dell’inizio dell’Islam. Loro, che per la prima volta erano apparsi sulla scena pubblica, hanno ottenuto circa un terzo dei seggi in Parlamento.  Incontestabilmente, l’avvenire dell’Egitto si allontana molto dalle speranze espresse nel mese di gennaio dai giovani della piazza Al Tahrir.

Nel 2011 il turismo è scomparso e gli investimenti stranieri in Egitto sono completamente cessati. La disoccupazione è aumentata e decine di milioni di egiziani non hanno da mangiare. Questa situazione è esplosiva e la tensione è palpabile nelle manifestazioni e nella violenta repressione alla quale ricorre l’esercito per disperderle.

La crisi economica in Egitto spinge numerosi africani che si trovano oggi in Egitto ad attraversare il Sinai in direzione di Israele.

 Siria

Il 26 gennaio, un giorno dopo l’Egitto, sono iniziate le manifestazioni in Siria. In questa prima fase, la gente che usciva dalle moschee dopo la preghiera del venerdì, si era riunita in manifestazioni spontanee, fu dispersa con la violenza dal governo. I funerali delle persone uccise, che si erano svolti il giorno dopo, sabato, si trasformarono in manifestazioni di protesta, disperse dall'esercito con la forza. Le proteste si calmarono durante la settimana, ma esplosero nuovamente il venerdì e così le settimane successive. Durante la prima fase, le manifestazioni si concentrarono nella città di frontiera del sud, Deraa, una città i cui abitanti beduini hanno dei legami con i loro fratelli in Giordania, da cui ricevono armi per difendersi dai soldati e dai veicoli blindati di Assad. Centinaia di abitanti di Deraa e dintorni furono uccisi, ma le manifestazioni si sono ampliate ed estese alle città di frontiera del nord: Idlib, Jisr Ash Shughur, e all’ovest, Maarat Alnoman che è vicino a Ebla. In seguito, le manifestazioni si sono propagate anche a città secondarie: Homs, Lattaquié, Deir az Zour, e si sono allargate alle città vicine a Damasco.

Migliaia di rifugiati siriani sono fuggiti verso il Libano e la Turchia, che osserva  intanto quel che accade presso il suo vicino meridionale con estrema inquietudine per diverse ragioni:

a)      Il governo turco musulmano non può restare indifferente di fronte al comportamento degli Alauiti, che secondo l’Islam, sono infedeli che massacrano dei musulmani.

b)     Il caos siriano rischia di sconvolgere il paese e la Turchia si troverebbe di fronte ad uno Stato curdo supplementare, questa volta sulle rovine della Siria, da aggiungere al problema dei curdi in Irak.

c)      Negli ultimi mesi, in Turchia sono numerosi i casi di musulmani che hanno ucciso degli alauiti per vendicarsi di quello che gli alauiti fanno ai musulmani in Siria. Erdogan non vuole un conflitto interno religioso tra musulmani e alauiti, oltre a quello etnico già esistente tra turchi e curdi.

Per “convincere” Assad a fermare i massacri dei suoi cittadini musulmani, la Turchia ha concentrato delle forze armate sul suo confine meridionale con la Siria, ma l’Iran si è svegliato e ha cominciato a minacciare di attaccare la Turchia nel caso volesse immischiarsi in quel che succede in Siria. Questa minaccia apparentemente ha funzionato fino ad oggi, i turchi non hanno ancora concretizzato le minacce fatte ad Assad.

Nel frattempo la Lega Araba è intervenuta e nel mese di settembre, ha iniziato a minacciare Assad di rivolgersi all’ONU con una chiara allusione all’intervento straniero in Libia. Sono trascorsi tre mesi di spargimento di sangue prima che la Lega araba trovasse una formula per inviare degli osservatori in Siria, mentre è probabile che non saranno in grado di promuovere la pace tra Assad e i suoi avversari. A fine dicembre il numero delle vittime accertate è di circa 6000, alle quali bisogna aggiungere i 60.000 prigionieri di cui s’ignora la sorte.

Il mondo deve seguire e sorvegliare attentamente i depositi militari siriani affinchè soprattutto le armi chimiche e biologiche, non finiscano nelle mani di organizzazioni terroristiche come Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica.

 Yemen

Il 27 gennaio 2011, due giorni dopo l’Egitto e un giorno dopo la Siria, grandi manifestazioni sono esplose contro il presidente Ali Abdallah Saleh, che aveva governato in Yemen per 33 anni, inserendo i membri della sua tribù in tutti i posti chiave di governo del paese. L’esercito si è diviso tra unità fedeli al presidente e  unità di opposizione, senza arrivare al punto di combattersi. Per tutto l’anno, lo Yemen ha visto avvicendarsi una lunga serie di manifestazioni che il governo ha tentato di disperdere con la violenza e in cui centinaia di persone avevano perso la vita. All’inizio di giugno il palazzo di Saleh è stato bersaglio di missili e il presidente, leggermente ustionato, ha avuto la necessità di essere curato per quattro mesi in Arabia Saudita. In questo periodo nel paese è regnata un po’ di calma, ma le fiamme si sono riaccese nelle strade delle città al ritorno di Saleh in Yemen a fine settembre.

La principale opposizione a Saleh si trova nel sud del paese: le città di Taez, Abb (Ibb) e Aden, e numerose tribù del sud, chiedono l’indipendenza che esisteva nel Sud Yemen vent’anni prima.

Il gruppo dei paesi del Golfo è intervenuto e ha proposto un compromesso che ha consentito a Saleh di ritirarsi dal potere senza processo per i crimini commessi contro i propri cittadini.

Il 21 ottobre, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva deciso le dimissioni di Saleh,il quale, il 23 novembre, ha trasferito il potere al suo vice, ma la calma non è tornata.  Il sud ha continuato a reclamare l’indipendenza, mentre la striscia di Saada, situata al nord, è nelle mani di un gruppo sciita legato all’Iran e chiede di essere separata dal paese. Numerosi membri della tribù di Saleh continuano a controllare unità militari e settori governativi; è probabile quindi che il caos continui.

Bahrein

Tre giorni dopo le dimissioni di Mubarak, il 14 febbraio iniziarono delle manifestazioni sull’isola di Bahrein, vicino alla costa dell’Arabia Saudita. Quest’isola ha una popolazione in maggioranza sciita che parla il persiano ed è dominata da una minoranza di arabi sunniti, la tribù Al-Khalifa, che emigrò dalla parte continentale dell’Arabia sull’isola di Bahrein 200 anni fa e che la controlla sino aa oggi, grazie agli inglesi, agli americani e ai sauditi. Una serie di manifestazioni ha avuto luogo sulla piazza del centro della capitale Manama, la “Piazza della perla”, e i manifestanti che vi erano accampati in tende furono dispersi con la violenza ma il cambiamento fondamentale ebbe luogo quando l’esercito saudita, su invito del re, a metà marzo invase il Bahrein e più tardi conquistò il paese. La rivoluzione in Bahrein è fallita ma persiste la tensione tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita che la domina, mentre continuano le manifestioni di protesta.

Occorre evidenziare che esiste un altro attore, nascosto, che agisce in questo contesto: è l’Iran, che afferma che storicamente l’isola di Bahrein gli appartiene per il fatto che la maggioranza della popolazione è sciita, e quindi si sente responsabile del suo benessere e della sua sicurezza. Queste rivendicazioni preoccupano molto l’Arabia Saudita, la grande rivale dell’Iran, poiché l’isola di Bahrein è situata solo a 28 km al largo delle coste saudite e se essa cadesse nelle mani degli Iraniani, questi potrebbero controllare la costa saudita e le numerose risorse petrolifere.  Dobbiamo infine evidenziare un altro fattore importante: sull’isola di Bahrein è situato il principale porto di forze americane nel golfo, da qui la sua importanza strategica per l’insieme delle forze occidentali che si trovano nel golfo di fronte all’Iran. Ciò spiega il consenso internazionale a questo proposito e la grande collera iraniana in seguito all'aiuto al Bahrein da parte dei sauditi.

 Libia

Quattro giorni dopo le dimissioni di Mubarak, il 15 febbraio sono iniziate delle manifestazioni contro Gheddafi che ha reagito con grande crudeltà, uccidendo migliaia di civili. L’esercito si è rapidamente disintegrato per la sua struttura tribale e delle unità interamente equipaggiate e dotate di armi pesanti si sono rivoltate contro Gheddafi. Il mondo ha esitato, balbettato, condannato e finalmente è intervenuto con attacchi aerei sulle forze armate, ossia le tribù fedeli a Gheddafi. La regione della Cirenaica con capitale Bengasi è stata al centro della ribellione, aspetti etnici sono comparsi quando tribù berbere sono intervenute contro l’esercito libico. Gheddafi è stato aiutato da mercenari africani del Ciad e del Niger, ma anche da soldati siriani che Assad gli aveva inviato per aiutarlo. Tuttavia ciò non è stato all’altezza della macchina da guerra europea, che ha approfittato di una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che si appellava a proteggere i civili libici, per eliminare lo stesso Gheddafi, che è riuscito  a sopravvivere fino al 20 ottobre, quando i ribelli lo catturarono e lo uccisero, abusandone nella maniera più umiliante.

Dopo di lui anche i suoi figli furono catturati e il potere è passato nelle mani di una coalizione di tribù che gestiscono il paese con la forza,  ma in conflitto tra loro, per la spartizione del potere dopo l’eliminazione di Gheddafi. Le armi provenienti dai depositi dell’esercito, in particolare missili antiaerei, sono state disperse in Medio Oriente e in parte sono arrivate a Gaza.

Occorre notare che dall’inizio dell’anno ci sono state manifestazioni di massa anche in altri Stati della regione: Algeria, Marocco, Giordania, Iraq e anche Iran, che non è un paese arabo, ma sono state trattate con mezzi polizieschi adeguati e questi Stati funzionano ancora come hanno funzionato fino al 2011. In Marocco il re ha introdotto cambiamenti nella Costituzione e oggi vanta nel regno vasti margini di azione politica legittima.

Le radici del disastro

Queste evoluzioni in Medio Oriente erano già avvenute nel corso del decennio precedente: nell’aprile del 2003 una coalizione internazionale diretta dagli Stati Uniti fece cadere Saddam Hussein e, dopo il crollo del suo potere, il mondo arabo si pose una domanda: perché noi, nazione araba, per sbarazzarci dei dittatori abbiamo bisogno di forze straniere? Perché non facciamo quello che fa qualunque  società sottomessa all’oppressione? Perché le folle ukraine, ceche e rumene sono scese in piazza per appropriarsi della loro indipendenza, mentre noi ci comportiamo come docili montoni ? Fin dal 2003 queste domande si sono diffuse nello spazio mediatico arabo ed hanno infiammato la volontà di liberarsi di questi regimi.

Nel gennaio del 2006 abbiamo assistito a una seconda evoluzione, quando il movimento di Hamas alle prime elezioni alle quali partecipava, ottenne la maggioranza dei seggi dell’assemblea legislativa palestinese. Il passo successivo avvenne nel giugno del 2007 quando Hamas con la forza delle armi si è impossessato del potere a  Gaza, dopo aver liquidato i servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ucciso e ferito molti dei suoi membri e averli costretti a fuggire in Giudea-Samaria. Ciò ha costituito un esempio vivente per il movimento islamico, guidato dai “Fratelli Musulmani”, che si è instaurato in questo territorio  instaurandovi stabilmente il proprio  potere. Il movimento di Hamas ha così creato un modello da imitare, e incoraggia molti altri nel mondo arabo a seguirne le orme.

L’Islam conquista la centralità dei movimenti

Nel 2011, in numerosi paesi, i movimenti islamici hanno acquisito una legittimazione politica che in passato non possedevano: in Tunisia, il partito islamico ha ottenuto il 41% dei seggi in Parlamento; in Marocco,  il partito islamico ha ottenuto la maggioranza parlamentare; e in Egitto si profila una vittoria storica dei partiti religiosi che otterranno il 70% dei seggi nel Parlamento egiziano. In Libia il presidente dell’Assemblea nazionale al potere, ha proclamato che la Libia sarà uno Stato islamico e che la Sharia sarà alla base delle leggi del paese.  Infatti, il nuovo potere libico, ha annullato il divieto di poligamia imposto da Gheddafi. A questi paesi bisogna aggiungere la striscia di Gaza che funziona come uno Stato islamico fin dal 2007 con il sostegno massiccio dell’Iran.

L’Islam giunge al potere con mezzi democratici, malgrado il fatto che la democrazia non sia una forma di potere che si integri in modo naturale all’Islam, poiché la tradizione islamica non accetta alcune componenti importanti della democrazia, come l’eguaglianza tra uomini e donne, i diritti delle minoranze religiose, la libertà di espressione, l’autorità della legge, la separazione dei poteri, la libertà religiosa e di culto, e l’alternanza del potere attraverso libere elezioni. Non siamo ancora arrivati a una situazione in cui un partito islamico perda la maggioranza elettorale, così è difficile prevedere come si comporterà un partito di questa natura se perdesse le elezioni: rinuncerà al potere o vi resterà aggrappato per sempre?

In questo contesto di islam politico, è importante ricordarci dell’Iran, che iniziò la “rivoluzione islamica” all’inizio del ’79 e di Hezbollah che, sulla stessa scia, si è appropriato del Libano in un processo ancora in corso.

Certi ricercatori nel mondo affermano che i “Fratelli Musulmani” sono a tutti gli effetti dei pragmatici, moderati, aperti alla modernità nelle sue numerose componenti culturali e politiche, e quindi non ci sarebbe alcuna ragione di allarmarsi per l’ondata islamica che dilaga sul mondo arabo. Di opposto parere, un gruppo di ricercatori  afferma che i “Fratelli Musulmani” possono indubbiamente essere dei pragmatici, ma che non prendono misure adatte a contrastare quei gruppi che sono molto più radicali di loro e ai quali consentono di agire in assoluta libertà contro i “nemici dell’Islam”. Questi ricercatori rammentano che organizzazioni terroristiche islamiche apparse in luoghi diversi, hanno avuto origine da una piattaforma ideologica simile ai “Fratelli Musulmani”.

Per esaminare i movimenti dell’islam politico che arrivano al potere, non bisogna concentrarsi sugli slogan ma sulle azioni: si comporteranno in modo democratico nei confronti della popolazione e ne rispetteranno la volontà ? Rispetteranno gli impegni internazionali ereditati dal potere precedente? Per quanto riguarda l’Egitto, il futuro paese rispetterà l’accordo di pace con Israele?

Un problema supplementare che deriva dalla vittoria dell’islam politico è l’effetto che avrà sui movimenti liberali e laici del mondo arabo: la vittoria dell’islam li cancellerà, portandoli verso fallimento e disperazione, oppure farà sorgere in loro una sfida che li spingerà a intensificare la loro attività e a organizzarsi per migliorare,  guadagnare il consenso degli elettori ? Queste e altre domande che nascono con l’islam politico verranno chiarite nei prossimi anni.

Risveglio del tribalismo

In molti paesi in cui la società ha ancora delle caratteristiche tradizionali, il tribalismo, profondamente ancorato nella cultura medio-orientale, gioca un ruolo chiave. I problemi politici dell’Iraq, della Libia, dello Yemen, del Sudan e dell’Autorità Palestinese, costituiscono una espressione politica delle divisioni tribali, etniche, religiose e comunitarie che caratterizzano le società del Medio Oriente.  Risulta che la politica del blocco arabo classico, che ha cercato di fondare la sua legittimità sulla coscienza nazionale comune all’insieme dei cittadini del paese, non è mai riuscita a radicare nella popolazione  una identità nazionale e a sradicarne la tradizionale fedeltà alla tribù, all’unità etnica  ( es.. i curdi, i turkmeni, gli armeni), all’ambiente religioso ( musulmani, cristiani, zoroastriani ed altro ) o alla comunità ( sunniti, sciiti ).

Sullo sfondo si manifestano sempre più le tendenze alla divisione nei paesi appartenenti ai blocchi creati dal colonialismo, e nello stesso tempo si creano dei paesi su una base omogenea: nel luglio del 2011 il Sudan si è diviso in due Stati e si può supporre che le sue due parti (Darfur e Kordofan) continueranno a rivendicare la loro indipendenza e quindi a dividere il Sudan (del Nord, arabo-islamico) in unità tribali.

L’Iraq è già di fatto scisso in due Stati: il Curdistan e l’Iraq. La parte autonoma curda beneficia di uno Stato e di un Parlamento propri, così come una serie di attributi di potere indipendente: un esercito potente, una polizia efficiente, una legislazione, un sistema giudiziario, un’amministrazione e un’economia propri. In questi ultimi mesi, a causa del mal funzionamento del governo di Bagdad, una parte delle zone ( = le tribù) dell’Iraq arabo si sono proclamate “regione”, cioè un’entità che gestisce la propria esistenza, con una larga autonomia, una specie di “Stato” (come il New Jersey e lo Utah negli USA ).

In Libia, le tribù sono riuscite a cacciare Gheddafi ed al momento si combattono tra di loro per la suddivisione del potere.

In Yemen, le grandi manifestazioni che hanno luogo nelle città del Sud (Aden, Taaz, Ab) si svolgono in nome di slogans che rivendicano l’esigenza pubblica di uno smantellamento del paese e del ripristino dell’indipendenza dello Yemen del Sud, com’era fino a 20 anni fa.

L’Autorità Palestinese è divisa sul piano culturale e politico tra Gaza e qualcosa che potrebbe nascere in futuro in Giudea-Samaria.

Anche in Siria, data l’ampia rivolta contro il potere di Assad, ci sono dei segni che stanno a indicare che il paese si scinderà in parti omogenee.

Il ruolo dei media

Non si può trascurare il ruolo che ha avuto la diffusione mediatica via satellite negli avvenimenti dell’anno scorso. Il canale televisivo Al-Jazeera ha diffuso il fuoco della rivoluzione, e ciò dopo 15 anni di incitamento selvaggio e brutale contro i sovrani arabi, contro gli USA e Israele in particolare, e contro la cultura occidentale in generale.

Era impossibile per le masse oppresse organizzare delle manifestazioni attraverso la stampa, la radio o la Tv nei loro paesi, ed è proprio a questo punto che i siti Internet e i Social Network hanno avuto un ruolo centrale; attraverso il loro tramite, dappertutto, “i giovani della Rivoluzione” sono riusciti ad organizzarsi per guidare azioni di massa contro il potere.

I siti di diffusione di video come YouTube hanno aiutato i rivoluzionari a diffondere nel mondo le misure di repressione messe in atto contro i manifestanti. Ciò è particolarmente evidente in Siria e in Egitto, dove si svolgono combattimenti contro l’esercito, che vengono trasmessi quasi in diretta, come anche le operazioni di repressione attuate dal potere. Il leader arabo moderno non può più nascondere il suo operato agli occhi del mondo. E' allo scoperto e dunque anche vulnerabile, dopo che l’opinione pubblica mondiale, che vede il sangue macchiare le strade, spinge i propri politici a intervenire.

La Lega araba

Durante i primi dieci anni di questo secolo e in particolare data l’inazione araba nei confronti di Israele durante la seconda Intifada, furono molti coloro che sfogarono  la loro amarezza contro la Lega araba, a tal punto che uno dei giornalisti più noti in Egitto la definì “un cadavere conservato in frigo, per il quale  nessuno ha il coraggio di redigere un certificato di morte”. La Lega ha fallito nei tentativi di far uscire dal Kuwait l’Iraq di Saddam nel 1990, così come non riuscì a convincere la Siria a non sostenere l’Iran contro l’Iraq durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988); non riuscì a far cessare il genocidio perpetrato in Darfur dal potere centrale sudanese, ed ha anche fallito nel rappresentare il blocco arabo sulla scena internazionale.

La debolezza della Lega ha portato di conseguenza, alla creazione di altre organizzazioni multinazionali nel mondo arabo: Il Consiglio della Cooperazione nel Golfo, l’Oganizzazione dei paesi del Nord  Africa, ecc.

Nel 2011 la Lega ha beneficiato di una “respirazione artificiale” da parte dell’Europa, grazie al peso che la Nato ha dato alla sua domanda al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di difendere i cittadini in Libia contro la repressione del potere. La Nato ha tradotto questa domanda in una guerra totale contro Gheddafi,  causandone cattura e  morte.

In questi giorni c’è la possibilità che questo scenario si ripeta in Siria: un passo della Lega araba presso il Consiglio di Sicurezza darebbe un assegno in bianco internazionale a un intervento straniero in Siria, ed è così che, in realtà, la debolezza della Lega, che non può far assolutamente niente di concreto contro un leader arabo che massacra i propri concittadini, le permette di indirizzarsi a potenti organismi internazionali per far in modo che siano essi a combattere i sanguinari dittatori arabi.

Il Qatar, una forza in crescita

Non si può trascurare il ruolo fondamentale che nell’ultimo decennio ha svolto il Qatar, in modo particolare nell’ultimo anno. Con la gestione di Al-Yazeera, il Qatar è riuscito a distruggere il potere di Ben Ali in Tunisia, di Mubarak in Egitto, di Gheddafi in Libia, di Saleh in Yemen, di Assad in Siria e di molti altri dirigenti di paesi arabi.  Al-Yazeera ha condotto contro di loro una “jihad mediatica” senza che nessuno potesse puntare il dito contro il Qatar; a quel punto, l’emiro del Qatar è diventato l’uomo più potente del mondo arabo, proprio per questo motivo.

Nel corso del 2011, il Qatar è stato anche coinvolto nell’attacco militare contro Gheddafi, quando l’aviazione militare del Qatar ha bombardato obiettivi militari libici e fornito armi e munizioni ai ribelli anti Gheddafi. Il Qatar partecipa con la Turchia all’addestramento dei soldati siriani che hanno disertato dal loro esercito, e cerca di farli rientrare in Siria per combattere l’esercito regolare del governo di Assad.

Il Qatar ospita sul suo territorio la principale base aerea degli Stati Uniti nel Golfo, e tutti sanno che qualsiasi operazione americana in funzione anti- Iran partirà da questa base, che si trova a soli cinque minuti di volo dalle coste iraniane.

L’emiro del Qatar e il suo Ministro per gli Affari Esteri da due mesi stanno conducendo una campagna di pressione su Assad, con chiare minacce di rivolgersi all’ONU e al Consiglio di Sicurezza, se egli continua a uccidere i suoi cittadini. Gli attacchi contro il Qatar sui media siriani esprimono perfettamente la collera ufficiale della Siria contro il piccolo emirato che si comporta come una grande potenza.

L’Iran

Nell’anno che si è appena concluso,  l’Iran ha osservato con grande inquietudine gli eventi nei paesi arabi. Il potere si disgrega in Siria, e se Assad cade, l’Iran perderà la sua base in quel paese. Hamas si è trasformato in un movimento governativo e ha sospeso, per il momento, la jihad contro Israele; e persino Hezbollah si scontra con un’opposizione all’ interno del Libano,  che si accresce man mano che la situazione di Assad va deteriorandosi.

L’Iran oggi sta per prendere l’Iraq sotto l’ala della sua egemonia, e il ritiro americano in dicembre ha accelerato questo processo. Israele dovrà tenere in considerazione il possibile ritorno dell’Iraq sul fronte orientale per tutto quel che è legato al futuro della valle del Giordano.

L’Iran persiste nel suo progetto nucleare e lo traduce in potenza militare, al fine di dissuadere tutti coloro che meditano progetti ostili al potere degli ayatollah, e per riconquistare l’egemonia nella regione. Aspira a far entrare il Golfo sotto la sua influenza e a neutralizzare la potenza di Turchia e Israele.

Turchia

La Turchia, che ha fondato la sua politica estera nel decennio precedente sul principio “zero conflitti”, oggi è circondata da un certo numero di conflitti di difficile soluzione. Essa è coinvolta in Siria, minacciata dall’Iran, si trova in una situazione delicata con Israele per la controversia in materia di navigazione marittima e del gas nel Mediterraneo; anche nei confronti con la Francia i rapporti sono difficili per il riconoscimento del genocidio armeno; inoltre è stata in tensione con gli USA e l’Europa per aver sostenuto Gheddafi.

L’economia turca, in rapida espansione, è finora il trampolino principale della sua potenza politica, soprattutto per i problemi economici nell’euro-zona e negli Stati Uniti. Tuttavia, una recessione economica in Europa avrebbe ripercussioni negative  anche in Turchia, per il possibile rientro in patria di molti disoccupati turchi provenienti dalla Germania, e ciò preoccupa il governo turco.

Conclusioni

Il 2011 è stato un anno di grandi sconvolgimenti in tutto il Medio-Oriente, che cambia rapidamente  e sprofonda in una palude di conflitti interni negli Stati che lo compongono, con un’economia che va di male in peggio e con molte speranze che vanno in frantumi a contatto con la dura e problematica realtà. La “primavera araba” si rivela essere sempre più un “inverno islamico e tribale”, e le previsioni degli osservatori e dei giornalisti occidentali che avevano parlato di “democrazia nel mondo arabo”, si rivelano lontane dall’amara realtà.

In tutto questo scenario, Israele appare come un’isola di buon senso, di stabilità e prosperità.  Noi dobbiamo difenderci dalle onde minacciose che agitano il mondo che ci circonda.

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link:
http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/


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