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Zvi Mazel/Michelle Mazel
Diplomazia/Europa e medioriente
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La Libia alla deriva 27/09/2011

La Libia alla deriva
di Zvi Mazel

questo articolo esce in contemporanea su The Jerusalem Post

(traduzione di Angelo Pezzana)


Zvi Mazel                                    Abd el Hakim Belhaj

Difficile dire come finirà in Libia, né prefigurare quel accadrà nelle prossime settimane o mesi. Ce la farà il Consiglio Nazionale di Transizione a controllare l’intero paese, oppure la guerra civile impedirà la nascita di un nuovo regime ? Altrettanto importante è capire qual è l’atteggiamento del Consiglio su come dovrà essere composto il nuovo governo, quando indire le elezioni, redigere una nuova costituzione e ristabilire l’ordine sociale.

 Quanto contano gli islamisti nel Consiglio ? Fino a che punto saranno decisivi per il nuovo regime ? Queste domande sono cruciali non solo per la Libia, ma anche per i paesi europei dall’altra riva del Mediterraneo. Se il conflitto continua ci saranno serie conseguenze. Questi paesi dovranno finanziare i ribelli con costosi aiuti militari, disponendo però di limitati bilanci. Dovranno anche occuparsi dei rifugiati in arrivo dalla stessa Libia e dall’Africa attraverso il territorio libico. Un argomento che è stato discusso da Sarkozy e Cameron durante la loro recente visita a Tripoli.

 Malgrado la capitale sia oggi nelle mani dei ribelli, il Consiglio non controlla ancora il paese. La Libia ha una superficie di due milioni di Km quadrati, un territorio molto vasto, in gran parte formato da deserti, ed è lì che la guerra continua . I fedeli di Gheddafi combattono ancora a Sirte, dove il rais è nato, e a Beni Walid, bloccando l’avanzata dei ribelli. I quali però affermano di avere “liberato” le regioni di Sabha e Jofra, nella parte centrale del deserto del Sahara (notizia però non confermata), dove hanno scoperto un enorme deposito di munizioni , comprese armi biologiche che Gheddafi avrebbe dovuto distruggere secondo quanto era stato concordato con le potenze occidentali nel 2004. I suoi fedeli combattono con coraggio e tenacia, mentre le forze ribelli, malgrado l’enorme aiuto ricevuto dalla Nato con i bombardamenti aerei e l’appoggio di unità militari speciali inviate da alcuni paesi europei, restano di fatto male organizzate, mancando anche  artiglieria e munizioni. Per questo la Nato ha dovuto prolungare di altri tre mesi gli attacchi arei , senza i quali i ribelli sarebbero andati incontro a un totale fallimento.

Secondo quanto affermato da un portavoce di Gheddafi, sono stati catturati anche dei mercenari francesi e inglesi, e che verranno processati pubblicamente. Non è però chiaro se siano davvero mercenari o soldati regolari degli eserciti francesi e inglesi, ma questa seconda ipotesi è negata dai rispettivi governi. Lo stesso Gheddafi è ancora libero, nascosto in qualche luogo del paese, e incita i suoi a combattere fino alla fine. Nessuno dei suoi figli è stato preso, anche se gli aerei della Nato uccidono la popolazione civile nelle zone controllate ancora dai suoi fedeli. Quanto tempo reisterà ? Ma anche se Sirte a Beni Walid saranno prese, la guerriglia potrebbe continuare , impedendo la nascita di regime stabile.

 Il Consiglio ha nominato Mahmoud Jibril, già ministro di Gheddafi, Primo Ministro ad interim con l’incarico di formare il governo, operazione che però non è ancora andata in porto. Il Consiglio deve creare un governo provvisorio il più in fretta possibile per rassicurare l’opinione pubblica mondiale e dimostrare così di avere il controllo della “Prima Democrazia nel Nord Africa”, nella quale vi saranno elezioni democratiche con l’approvazione di una nuova costituzione. La scorsa settimana l’Onu ha riconosciuto ufficialmente il Consiglio quale legittimo rappresentante del paese, insieme alla nuova bandiera – quella del precedente regno libico – che adesso sventola insieme alle altre. Lo stesso ha fatto l’Unione degli Stati africani, dopo molte esitazioni e tentativi di compromesso fra Gheddafi e i ribelli, nessuno dei quali è andato a buon fine. La Lega Araba, gli Stati Uniti e la maggior parte degli Stati europei si sono comportati allo stesso modo.

Quarant’anni di regime autoritario hanno lasciato il paese privo di partiti politici. Gli unici gruppi organizzati sono gli islamisti, i Fratelli Musulmani e ciò che rimane del “ Gruppo dei combattenti libici islamici”. Ci vorranno diversi anni prima che si formino nuove forze politiche in grado di rappresentare le varie correnti di una società divisa fra molte tribù. Nel frattempo il comando unificato dei ribelli a Misurata ha eletto quale candidato a Premier Abd el Rahman Al Soweily, da sempre un oppositore del regime, noto per le sue posizioni moderate. In numerose interviste ha dichiarato che la candidatura di Jibril, che è stato legato al regime di Gheddafi, può rappresentare un pericolo per il nuovo regime democratico.

 Mentre le nuove forze politiche cominciano a manifestarsi, cresce il conflitto tra islamisti e laici. Mustapha Abd el Jallil, che guida il Consiglio, ha dichiarato la scorsa settimana a Tripoli che l’islam sarà la fonte principale della nuova legislazione. Come è accaduto in tutti gli stati arabi prima delle rivoluzioni che hanno sconvolto la regione e come, probabilmente, succederà in futuro. I Fratelli Musulmani sono la forza politica più rilevante in questi paesi, e sono ben piazzati all’interno del Consiglio libico. Le loro richieste verranno senza alcun dubbio accolte. Ma c’è di peggio, il leader delle forze ribelli che hanno preso Tripoli altri non è che Abd el hakim Belhaj, un estremista islamico che ha combattuto in Afghanistan contro i russi. La sua vera identità è stata rivelata dopo che prese Bab el Azizia, la sede di Gheddafi a Tripoli. Già negli anni novanta era stato a capo del “Gruppo dei Combattenti Libici Islamici”. Venne arrestato dagli americani in Tailandia nel 2004, e trasportato in Libia. Curiosamente Gheddafi lo liberò nel 2010 dopo che si dichiarò pentito.

 Quando il 17 febbraio 2011 iniziarono le prime manifestazioni, Belhaj  si unì immediatamente ai ribelli e divenne la forza trainante del Consiglio, come hanno riferito i media libici e i siti islamici. Quando la sua vera identità fu conosciuta gli europei furono scioccati. Belhaj li rassicurò, sostenendo che non aveva rapporti con Al Qaeda e che non aveva nessuna intenzione di instaurare in Libia uno stato islamico, malgrado tutti fossero convinti che questa era la sua vera intenzione.

Di colpo la gente cominciò a chiedersi quale parte avesse avuto nell’assassinio di Abdel Fattah Younes, il comandante delle forze ribelli. Younes, che era stato Ministro degli Interni sotto Gheddafi, dopo aver partecipato con lui alla cacciata del re nel 1970, si era unito ai ribelli il 21 febbraio – qualche giorno dopo l’inizio della rivolta – ed era stato subito nominato comandante in capo dei ribelli, la stessa posizione che ha oggi Belhaj. Younes apparteneva alla tribù degli Obeidi, una fra le più grandi della Libia, ed era destinato a ricoprire un ruolo importante nel nuovo regime. Le circostanze della sua morte sono ancora oscure, il Consiglio ha creato una commissione d’inchiesta, che però non ha prodotto alcun risultato. E’ stato detto che gli islamismi hanno avuto tutto da guadagnare dalla scomparsa di un uomo che godeva di così grande influenza, la sua presenza nel Consiglio avrebbe rafforzato la corrente laica. Nulla è stato finora scoperto, anche se la scorsa settimana membri della tribù degli Obeidi hanno manifestato a Bengasi chiedendo che venissero accelerate le indagini per identificare e punire i colpevoli. Nello stesso tempo hanno dato vita a un “ Consiglio Militare della Cirenaica”, anche se hanno specificato che non esprimeva una volontà di secessione, ma era soltanto una parte dell’esercito nazionale a disposizione del Consiglio. Di fatto sono i primi segnali di una secessione delle tribù delle Cirenaica da quelle della Tripolitania, quindi la divisione del paese.

Un gruppo di nuovi giornali, dalle tendenze liberali, usciti dopo l’abbandono di Tripoli da parte di Gheddafi, attaccano ora sia gli islamisti che Belhaj. Accusano gli islamisti de essersi impadroniti della città dopo aver creato delle truppe per il controllo della “moralità pubblica”, con il compito di vigilare nelle strade e chiudere locali da ballo e club. Nel contempo, sono state emesse delle Fatwa – decreti islamici – da parte di organismi sconosciuti, per imporre il velo alle donne, obbligarle a rimanere in casa e con la proibizione di recarsi al lavoro. Anche alle televisioni sono stati inviati ordini per impedire alle donne di apparire sul piccolo schermo. Secondo i giornali, il Consiglio di Transizione, con a capo Belhaj, ha chiuso parecchie strutture pubbliche che ospitavano giornali e stazioni televisive, senza informare il Consiglio Nazionale di Bengasi.

Un giornale, il “ Arouss el Bahr “ ( il fidanzato del mare), ha scritto il 20 settembre scorso che nove aerei con un carico di 100 tonnellate di armi e strumenti di comunicazione militare, erano arrivati dal Qatar all’aeroporto internazionale di Tripoli. Ufficiali del Qatar accompagnavano i cargo destinati a Belhaj, ed erano rimasti a terra in una base del suo comando nell’aeroporto. Sempre secondo quel giornale, Belhaj vuole impadronirsi della Libia come fecero gli Hezbollah in Libano, anche attraverso una nuova guerra civile.

Questa notizia non ha avuto conferme, ma è più che plausibile, sotto la copertura del Consiglio Nazionale di Transizione, Behaj e le sue truppe stanno cercando di creare uno stato islamico. La Libia sta andando alla deriva in un mare di irrisolutezza. La comunità internazionale ha riconociuto il Consiglio Nazionale, ma la guerra è lungi dall’essere finita.

La scena politica, rinata dopo un lungo sonno, deve ancora rivelarsi nei suoi vari aspetti, e le forze islamiste sono pronte per impadronirsi del potere. Continuerà la guerra ? Nascerà una nuova guerra civile che porterà le tribù a dividersi  il paese ? Oppure la rivoluzione libica, malgrado tutti i segnali, porterà ad un regime democratico ?

 La risposta serpeggia nelle sabbie del deserto…

Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto, Romania e Svezia.
Fa parte del Jerusalem Center fo Public Affairs.
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