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Ugo Volli
Cartoline
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Il percorso della libertà 10/04/2017

Il percorso della libertà
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

Cari amici,

il più evidente dei misteri e dunque delle ragioni di odio e di invidia per il popolo ebraico sta nella sua sopravvivenza, senza pari nel mondo. Tutti i popoli antichi sono spariti, sumeri e romani, egizi e vandali, galli e moabiti, troiani ed achei salvo il popolo ebraico.
Badate, non sto parlando di eredità genetica, né tanto meno della sua versione volgare della razza. I discendenti dei popoli antichi sono ancora qua, si è rilevato del DNA etrusco negli abitanti dell’Italia centrale, senza dubbio vi sono pronipoti dei Celti in mezz’Europa, non solo in Scozia e Irlanda, gli eredi dei visigoti sono ancora in Spagna e magari in Tunisia, i Galli vivono in Francia (ma anche in Lombardia) e non solo nei fumetti di Asterix.
Il privilegio degli ebrei è la sopravvivenza religiosa, culturale e politica, la durata di un’identità continuamente riconosciuta. Chi crede (non solo nel mondo ebraico, anche in quello cristiano) attribuisce questa durata a una scelta divina, alla responsabilità che il popolo ebraico si è assunto accettando il patto del Sinai.
Non discuto qui naturalmente di queste letture, perché Informazione Corretta è uno spazio laico, che si limita all’analisi politica, culturale e mediatica.
Ma c’è una spiegazione più banale, che ha relazione sì con la dimensione religiosa, ma nella sua manifestazione culturale.
Chi vuole capire le ragioni della vita di un popolo così duramente perseguitato, esiliato, diffamato per millenni, dovrebbe partecipare con attenzione questa sera a una cerimonia che unisce gli ebrei di tutto il mondo e che si svolge ogni anno da almeno venti, ma probabilmente più di trenta secoli.
Si chiama “seder”, parola che significa ordine, successione, regola, e sul piano materiale è banalmente una cena.

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La cena di Pesach (che significa passaggio o salto), quella stessa che poi la tradizione cristiana ha rielaborato come l’ultima cena di Pasqua. Ma è una cena speciale, ricca di cibo ma piena di simbolismi, intercalata da lettura di testi, canti, atti rituali. In sostanza è una straordinaria macchina semiotica e pedagogica, il cui senso è quello di richiamare la memoria della fondazione del popolo ebraico, identificata con l’”esodo”, l’uscita dall’Egitto, un aspetto così fondamentale della vita ebraica da essere ricordata in ognuna delle tre preghiere giornaliere che gli ebrei sono tenuti a dire, alla fine di ogni pasto, a ogni festa.
L’uscita dall’Egitto è innanzitutto descritta come liberazione, perché il popolo ebraico pensa la propria costituzione come evasione da una schiavitù.
Siamo stati schiavi, si dice in un punto fondamentale del Seder: pochi popoli si pensano come schiavi liberati; pochi gruppi religiosi si descrivono come discendenti di idolatri, come pure si dice nella cena rituale, e pochi ammettono di essere ciò che tutti i gruppi umani sono, immigrati da altrove.
Vedere con lucidità le proprie origini opposte al valore che si rappresenta, ammettere la violenza che è stata necessaria per liberarsi, prevedere che la libertà e la pace saranno messe in pericolo per ogni generazione sono atti di straordinario coraggio intellettuale e religioso, ma sono anche la premessa per fare della festa un passaggio che porta dalla consapevolezza del dolore alla disposizione all’azione, dal ricordo della liberazione passata alla resistenza religiosa e culturale che è la vera forza che ha consentito la continuità millenaria dell’ebraismo.

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E’ un passaggio che parte dall’Egitto, dalla schiavitù e dalla sofferenza del lavoro forzato, al punto focale terrestre dell’ebraismo, che è Gerusalemme.
Tutti coloro che partecipano a un Seder condividono questo punto di vista.
“Ieri eravamo schiavi, oggi siamo liberti; oggi siamo qui, l’anno prossimo saremo liberi in terra di Israele” sono le prime parole della narrazione che è recitata nel Seder. E la conclusione, dopo un lungo percorso emotivo, rituale e gastronomico, ribadisce : לְשָׁנָה הַבָאָה בִּירוּשָלַיִם , “leshanà habah biyerushalaim”, “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Da settant’anni, da quando il popolo ebraico è tornato libero nella sua terra promessa, questa promessa è seguita dall’inno nazionale, “Hatikva”, che fin dal nome “La speranza” allude proprio a questo impegno. Chiunque si illuda di separare gli ebrei da Gerusalemme o di far loro dimenticare il legame con la loro terra, sia un nemico esplicito o un ipocrita o ignorante di buona volontà, dovrebbe pensare a questa strana cena, fare attenzione a quel che vi avviene. Perché in essa si celebra la coincidenza dell’identità, della costruzione di un “noi”, della Rivelazione che la ispira e dell’appartenenza a quel luogo.
Il popolo di Israele si forma nell’ascolto, tutt’altro che facile e senza resistenze, di una divinità ancestrale e compassionevole, ma allo stesso tempo in direzione della Terra che questa divinità dona; è evasione dalla schiavitù e aspirazione al radicamento nel proprio luogo, è conferma di una appartenenza comunitaria e accettazione del destino difficile che essa comporta.
Tutto assieme: la gioia e il dolore, l’identità e la molteplicità interna, la promessa della libertà e la minaccia dell’antisemitismo che si riaffaccia “a ogni generazione”, la tentazione per chi ha meno nerbo morale di fuggire e di chiamarsi fuori e la necessità di lottare con chi cerca di distruggere il popolo, il percorso lungo e non facile e la meta: Gerusalemme, cioè la libertà.
Il segreto dell’ebraismo, della sua durata, della sua ricchezza morale, dell’odio che i suoi nemici gli portano è tutto qui, in un Seder che è ordine, senso, direzione, identità.

A tutti i miei amici auguro buon Pesach, e soprattutto di essere “l’anno prossimo saremo liberi in terra di Israele”: לְשָׁנָה הַבָאָה בִּירוּשָלַיִם

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