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Ugo Volli
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I fondamenti razionali della politica di Israele 06/04/2016
I fondamenti razionali della politica di Israele
Diario di viaggio, di Ugo Volli

A destra: una donna araba israeliana: nel suo Paese, Israele, gode di pieni diritti

I viaggi in Israele di Informazione Corretta non sono solo turistici, ma sono veri e propri viaggi di studio, che hanno lo scopo di mostrare a chi vi partecipa un’immagine realistica e completa del paese. Data la complessità del paese, della popolazione, della sua cultura ed economia e anche della sua situazione strategica, ciò significa che nelle giornate si mescolano sempre livelli diversissimi di interesse: una visita a un’ospedale si può alternare a quella di un’impresa hi-tech, di una base militare, di musei notissimi o poco conosciuti; per non parlare di incontri e conferenze di esperti, che possono andare da giornalisti a comandanti militari, da attivisti a docenti universitari. Sarebbe troppo noioso e forse inutile fare un verbale di questi incontri e dunque vi riferisco alcuni pensieri che ho tratto da alcuni di questi incontri e che confermano impressioni che ho tratto dalle mie altre visite e letture.

In tutti i sistemi politici democratici vi è una differenza fra la vita politica che spesso è confusa e polemica, con spazio per la propaganda che inevitabilmente polarizza le posizioni e l’azione che lo stato svolge sulle questioni che individua come decisive. Stato qui vuol dire concretamente l’apparato amministrativo, militare, diplomatico, i livelli più alti del governo e dell’amministrazione pubblica. Questa differenza è particolarmente significativa in Israele, minacciato della sua sopravvivenza prima ancora di diventare un’entità politica internazionalmente riconosciuta, e poi sempre da allora. Quel che si discute freneticamente giorno per giorno nei giornali, alla Knesset (il parlamento), fra i partiti, ha un’influenza piuttosto indiretta e lenta sull’azione continua e paziente dello stato che inevitabilmente è continua, soprattutto nei periodi come questo in cui un primo ministro dura in carica per molti anni, cambiando magari maggioranza in seguito alle elezioni e alle vicende parlamentari, ma mantenendo la direzione dell’amministrazione. Le polemiche, i colpi di scena, gli impegni solenni, gli schieramenti sono tutte cose che contano, ma devono fare i conti con le grandi scelte compiute in passato e con il consenso tacito ma tenace, dell’apparato pubblico. Certo, ci sono conflitti, per esempio fra politica e un sistema giudiziario che in Israele è particolarmente potente e invasivo, dato che non è frenato da una costituzione scritta ed è dominato da una corte suprema che unisce le funzioni della nostra corte costituzionale e cassazione, ma può anche intervenire direttamente in qualunque vertenza. Ma vi sono regole informali del gioco, che difficilmente i vari attori sono in grado di infrangere.

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Camion israeliani in ingresso a Gaza: una scena che si ripete ogni giorno

Questo consenso emerge a proposito del rapporto coi palestinesi. Ne abbiamo parlato con un alto ufficiale responsabile di questo settore. Quel che è venuto fuori è che Israele sa benissimo che dovrà continuare a convivere con questo difficile e frastagliato nemico; che non gli sembrano affatto possibili gli sfracelli minacciati dalle sue fazioni; che cioè Hamas non ha davvero la forza per il momento di uscire dall’angolo in cui si è cacciato e può fare danni, non certo vincere una guerra. E che l’Autorità Palestinese non è uno stato né può diventarlo e neppure si sta muovendo davvero in questa direzione, anche se ne fa propaganda: per il semplice motivo che non ha gli strumenti economici, politici, finanziari, industriali per essere uno stato, non può procurarsi da sola le tasse, l’elettricità, l’acqua, neppure la sicurezza interna. E non sta affatto cercando davvero di costruire queste strutture. Un altro punto di consenso è che gli apparati politici palestinesi cercano il più possibile di danneggiare Israele, fanno propaganda per il terrorismo, rubano gli aiuti per alimentare la corruzione ma anche per dotarsi di armi illegali che cercheranno di usare contro Israele. Ma non possono essere semplicemente distrutti, come non possono essere sbandate le organizzazioni dell’Onu come l’Unrwa e le ong che lo aiutano, senza procurare danni maggiori. Non vi sono infatti solo i politici, i terroristi e i loro propagandisti, ma anche la gente, che a Gaza vive in una situazione molto difficile (mancanza di acqua e di energia e di occupazione) e nei territori governati dall’AP soffre di un problema di attese crescenti, non soddisfatte ma soddisfacibili. I giovani, ormai spesso istruiti e tecnicamente preparati, non si confrontano con i vicini arabi, la Siria e l’Iraq ma anche l’Egitto e la Giordania che vivono molto peggio di loro, ma guardano a occidente, al successo israeliano, e non vedono una strada per emularlo. Il problema, dal punto di vista di chi ci ha illustrato questa situazione, è come prevenire che queste tensioni peggiorino e portino a un’esplosione o all’anarchia. Per questa ragione, paradossalmente, oltre che per responsabilità etica generale, Israele si sente responsabile per i suoi nemici, cerca di evitarne il tracollo, ha concretamente fatto entrare centinaia di camion di merci e fornito energia elettrica a Gaza anche durante le guerre degli scorsi anni e oggi collabora con la comunità internazionale per aiutare a migliorare la sua situazione materiale. E anche per quanto riguarda l’Autorità Palestinese, nonostante il terrorismo che ne proviene, Israele è impegnata a migliorare il tenore di vita, dà segnali di insofferenza ma non chiude gli interruttori dell’energia elettrica nonostante un debito miliardario (in dollari), aumenta i permessi di soggiorno e di lavoro nonostante l’”intifada dei coltelli”. E in genere cerca di capire in mille modi con mille contatti e ascolti come evolve la società palestinese, quali sono i suoi bisogni e le sue difficoltà in modo da cercare di agevolare la soluzione, anche se questo lavoro non è riconosciuto apertamente né dai palestinesi né dai media né dalla “comunità internazionale” cioè dai governanti che contano.

Sotto a questo atteggiamento c’è un’analisi tacita ma chiara secondo cui non c’è da aspettarsi evoluzioni clamorose, non ci sono azioni possibili per risolvere il conflitto e che dunque la sola scelta ragionevole è cercare di perpetuare lo status quo, di migliorarne qualche aspetto, di attendere che la società palestinese cresca e diventi un po’ più democratica, che la politica internazionale sia meno ostile, che l’esperienza mostri ai capi palestinesi che la violenza non paga. Israele può solo controllare in parte il processo in cui è inserito, e non può immaginare di modificare le regole del gioco. “Perché questo è il Medio Oriente,” ci ha detto un ufficiale, non bisogna badare a quel che si dice ma a quel che si fa, e le regole del gioco fanno sì che anche le azioni non siano spesso ciò che appaiono. Non sta a un gruppo in visita né a un analista senza accesso diretto sul territorio quale io sono contestare questi assunti. Si possono discutere, ci si può chiedere se non portino prima o poi a uno stato binazionale difficilissimo da gestire. Ma bisogna constatare che vi è una logica strategica nella posizione israeliana che coincide anche col principio etico di cercare di non danneggiare chi non è direttamente responsabile di gravi attacchi. E questa logica è frutto di una continuità storica, esclude avventurismi ed estremismi, parte o cerca di partire da un’analisi fredda dei fatti e non dalle intenzioni o dai desideri. Essa può sembrare ingenua, perché sceglie di aiutare i propri nemici; ma esclude i salti nel buio e gli avventurismi che qualche volta nella politica israeliana ci sono stati (Oslo, i ritiri senza contropartite da territori difficili). Solo la storia giudicherà sul suo successo; ma di una cosa si può e si deve essere sicuri, che non è una politica scelta sulla base dell’ideologia, delle buone intenzioni, della ricerca di popolarità. E’ rigorosamente razionale e calcolata. Si può solo sperare che funzioni.

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Ugo Volli


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