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Ugo Volli
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Se non manca la speranza in un posto così esposto e violentato... 05/04/2016
Se non manca la speranza in un posto così esposto e violentato...
Diario di viaggio, di Ugo Volli

A destra: sul muro che protegge il moshav Netiv Assarà dai missili sparati da Gaza, la parola "shalom"

Cari amici,

Che cosa significa vivere sotto il fuoco dei terroristi? E’ una domanda che di solito in Europa si preferisce non porsi, occultando il problema sotto l’etichetta dell’eccezione, dell’imprevedibilità, dell’emergenza. Eppure, se si guardano le cose in una prospettiva più lunga della cronaca, è chiaro che dovremo tutti farci i conti, soprattutto se le politiche attuali sull’immigrazione continueranno sulla pessima strada attuale.

Ci sono naturalmente paesi come la Siria o la Libia che nel terrorismo affondano, tanto che esso ha inghiottito tutta la vita sociale; e altri, pochi, che ci fanno i conti da decenni senza farsene travolgere, come Israele e in particolare le zone più vicine a quell’industria pesante del terrorismo che è Gaza. Ma come si vive dove, quando il periodo è calmo, sul territorio di una città si abbattono uno o due razzi alla settimana e nei tempi brutti dieci o venti volte tanto; o in un villaggio dove ti segnalano che tutte le case sono state prima o poi colpite dai razzi dei terroristi, e in un cespuglio a due passi dalle case è stato scoperto (e distrutto per fortuna) due anni fa un tunnel d’attacco che era destinato a rapire e a uccidere i suoi abitanti?

Il viaggio di Informazione Corretta che vi sto raccontando ci ha portato di nuovo dopo tre anni in quella zona di Israele fra il deserto e il mare che circonda la striscia di Gaza ma ne è paradossalmente tenuta in ostaggio. La grande, perfino eccessiva risonanza data all’ondata di attacchi palestinisti degli ultimi mesi ha messo in ombra quel che vi accade, ma è chiaro che i pericoli strategici immediati possono venire a Israele soprattutto da Hamas e da Hezbollah, cioè da Gaza e dal Libano. E per ricordarlo, ogni settimana o poco più qualche razzo parte dalla striscia, oppure è Hamas a vantare l’inesistente presenza di prigionieri di guerra, oppure qualcuno tira fuori di nuovo la bizzarra idea di consentire un porto a nemici che lavorano senza sosta per trasformare ogni risorsa che riescono a farsi arrivare in arma per una guerra sporca.

Come si vive dunque sotto la loro minaccia? L’ospedale Barzilai di Ashkelon è il più vicino alla Striscia, che dista solo 12 chilometri. Ce ne parla il vicedirettore Ron Lovel, un medico energico, concentrato, molto votato. Qui il terrorismo vuol dire innanzitutto razzi, che lasciano solo una quarantina di secondi di preavviso. L’ospedale è stato più volte preso di mira ed è solo in parte blindato. C’è però anche il rischio degli attentatori suicidi, che magari si presentano come pazienti. Quando il conflitto erompe apertamente bisogna evacuare metà dei pazienti nel giro di due o tre ore, e ricollocare gli altri dove possono stare con un grado sufficiente di sicurezza. Le difficoltà collaterali alla violenza palestinese sono anche indirette, soprattutto la sindrome post-traumatica che affligge chi si sia trovato sotto il bombardamento, ma anche bambini che vanno fuori controllo e perfino la presenza nei momenti culminanti di numerosi giornalisti e politici che rendono difficile il lavoro. Nonostante tutto questo l’ospedale si sforza di tenere fede all’impegno a non fare discriminazioni fra pazienti, a non dividerli fra amici e nemici, oltre che per sesso, etnia, condizione sociale, come risulta dal suo motto, tratto da una frase del Maimonide, medico e filosofo del XII secolo famoso nel mondo ebraico. E tiene in cura arabi ed ebrei, gazani ammalati e anche feriti in guerra. Il che naturalmente è un obbligo etico e deontologico, ma rende le cose ancora più difficili in questo ospedale di confine.

Immagine correlata
Coltivazioni di pomodori a Netiv Assarà

Il moshav (villaggio cooperativo) di Netiv Assarà è ancora più vicino al nemico, durante la visita ci portano a un centinaio di metri dal cespuglio dove sbucava un tunnel d’attacco di Hamas e ad altrettanti dalla barriera di sicurezza. Qui è tutto un susseguirsi di sensori, torrette, militari in pattugliamento, mura di protezione contro i cecchini di Hamas. Tutte le case hanno stanze rifugio, anche le fermate dell’autobus sono blindate e accanto alle serre dove gli abitanti coltivano fiori e verdure vi sono delle campane di cemento dove rifugiarsi. Il percorso dei bambini che vanno a scuola è studiato in modo da evitare che sia esposto anche da lontano al fuoco dei terroristi. Quando il conflitto scoppia, spesso i campi sono devastati. Ma la gente ci dice che “solo il 5% della nostra vita è segnato dalla guerra, il resto è normale” e racconta di stare benissimo in quel posto, di non avere la minima voglia di andarsene. E in effetti negli ultimi anni, nonostante gli effetti della guerra, solo una famiglia su circa 150 ha scelto di trasferirsi. Nessuno grida vendetta, sulla muraglia che chiude il tiro diretto sulle case c’è scritto “shalom” con pittoresche ceramiche multicolori. Quel che regna è la speranza, la volontà positiva di vivere la propria vita, la certezza delle radici affondate in quella terra bellissima e produttiva. E se abbonda la speranza e la gioia di vivere anche in un luogo così esposto e violentato da quindici anni, i nemici di Israele non hanno davvero possibilità di successo.

Immagine correlata
Ugo Volli


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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