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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Libero Rassegna Stampa
12.05.2024 Israele alla sbarra, ma nessuno processa Hamas
Analisi di Marco Patricelli

Testata: Libero
Data: 12 maggio 2024
Pagina: 12
Autore: Marco Patricelli
Titolo: «Israele alla sbarra. Eppure nessuno chiede che i capi di Hamas siano processati»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 12/05/2024, a pag. 12 con il titolo "Israele alla sbarra. Eppure nessuno chiede che i capi di Hamas siano processati", il commento di Marco Patricelli.

Marco Patricelli
Marco Patricelli

L'accusa: il Sudafrica all'Aja, Corte Penale Internazionale. Israele viene accusata di genocidio, cosa che non ha alcun senso in una guerra difensiva come quella di Gaza. Ma nessuno, in compenso, ha mai pensato di portare a processo i capi di Hamas, artefici del pogrom del 7 ottobre.

Persino l’agghiacciante temine di genocidio è stato scongelato dal frigorifero degli orrori per poter accusare Israele e gli ebrei, che quel genocidio l’hanno subìto con la Shoah pagandolo con sei milioni di morti e il tentativo di cancellarli dalla faccia della terra. Il Sudafrica, storicamente noto campione di diritti umani, il 29 dicembre ha presentato un’istanza contro Israele alla Corte internazionale di giustizia puntando l’indice contro le presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio nella Striscia di Gaza, peraltro tutto da dimostrare.
Una spada di Damocle sotto forma di firma sotto a un mandato di cattura internazionale viene agitata sulla testa del premier Benjamin Netanyahu e dei generali Yoav Gallant ministro della Difesa e Herzl Halevi capo di Stato maggiore dell’esercito, per presunti crimini di guerra. Tutto è presunto in attesa di sviluppi giudiziari, se mai ci sarà un processo, con l’esibizione e la valutazione delle prove, ma un’altra impermeabile presunzione (quella che i giuristi chiamano iuris et de iure, che non ammette prova contraria) stranamente avvolge e protegge personaggi come Yahya Sinwar, che ha ideato il massacro del 7 ottobre e avviato il macello mediorientale.
Su Sinwar non s’è mosso il Sudafrica, ha chiuso gli occhi la Corte penale internazionale, si è addormentata l’ormai anestetizzata opinione pubblica occidentale che si strappa i capelli per la Palestina e quindi anche per Hamas, con una disinvolta applicazione della proprietà transitiva e di un’altrettanto raggelante equiparazione tra antisemitismo e antisionismo. Il capo di Hamas, dal profilo criminale sancito da sentenze di ergastolo passate in giudicato, è invece tenuto al di fuori e al di sopra di una guerra da lui stesso concepita e scatenata, che si è ritorta contro la popolazione della Striscia di Gaza, e non poteva essere altrimenti.
Sinwar, ovvero Abu Ibrahim, è un distinto galantuomo che si vantava pubblicamente di voler strappare il cuore agli ebrei, e il 7 ottobre i suoi tagliagole l’hanno preso in parola, lasciandosi dietro una scia di 1.400 morti e di centinaia di ostaggi poi nascosti nei tunnel e usati come scudi umani e arma di ricatto. A quelli che si spellano le mani e le tonsille applaudendo la Palestina e urlando slogan contro Israele affinché liberi centinaia di detenuti per scambiarli con gli ostaggi non si sa se ancora in vita, andrebbe ricordato che Sinwar, condannato a diversi ergastoli e per 22 anni messo dietro alle sbarre in condizioni di non nuocere, nel 2006 venne liberato con altri mille detenuti palestinesi in cambio del caporale Gilad Dhalit tenuto prigioniero da Hamas per ben 5 anni.
Si è visto con quali risultati: amato dai gazawi che lo hanno eletto nel 2021, e nello stesso tempo temuto per la sua riconosciuta spietatezza, tant’è che lo chiamano “il macellaio di Khan Yunis”. L’idra politico-militare di Hamas – che, non va mai dimenticato, è considerata a tutti gli effetti formali e giuridici un’organizzazione terroristica – ha molte teste ben lontano dal corpo dove infuria la guerra, al sicuro in Qatar (come Isma’il Haniyeh vi conduce vita tutt’altro che tribolata, tra agi e lussi impensabili per i gazawi), in Libano (Saleh al-Arouri, lo stratega che tesse le fila con Hezbollah e Jihad islamica tramite Hassan Nasrallah e Ziyad al-Nakhalah) e pure nell’ambivalente Turchia. Nomi e cognomi sono noti, implicazioni e compromissioni pure, quindi ci sarebbe tutto per invocare un processo in nome del diritto internazionale e valutare in quella sede le precise responsabilità. E invece no.
Un silenzio assordante si leva dai sepolcri imbiancati che evocano gli assurdi fantasmi del genocidio palestinese e del nazismo israeliano: gli strateghi del sanguinario pogrom del 7 ottobre considerati alla stregua di eroi partigiani da esaltare come campioni di libertà e i vertici politico-militari di Israele additati come spietati carnefici dei palestinesi da mandare alla sbarra in una nuova Norimberga.
La doppia morale sugli stessi fatti e la presunzione a senso unico della verità e della giustizia.

 

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