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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024

Febbraio 2013


Le Comunità Israeliane di Giudea e Samaria.
Interviste a David Cassuto e Yisrael Medad






Le Comunità Israeliane di Giudea e Samaria




• In seguito alla Guerra di Indipendenza 1948-1949, la Giordania occupa e annette le regioni fi Giudea, Samaria e Gerusalemme Est. La Lega Araba e l’ONU condannarono l’annessione per le mire espansionistiche della Giordania.
• Con l’occupazione giordana, le comunità ebraiche di lunga data (Nablus, Hebron, Gerusalemme) e di più recente formazione (kibbutzim e moshavim fondati a fine ‘800 e durante il Mandato Britannico) vengono espulse.
• La Giordania rinomina Giudea e Samaria come “West Bank”, per differenziarle dalla “East Bank”, che corrisponde al Regno di Giordania secondo la divisione tracciata dal fiume Giordano.
• Con la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Israele occupa le regioni di Giudea e Samaria, il cui status rimane ancora da definire.
• Secondo gli Accordi di Oslo, Giudea e Samaria sono divise in zone A, B, e C, rispettivamente sotto amministrazione palestinese, congiunta (amministrazione civile palestinese e militare israeliana), e israeliana.

Gli insediamenti israeliani



• Dopo il 1967, i governi israeliani di sinistra e di destra, hanno incoraggiato la formazione di nuove comunità in Giudea e Samaria, attraverso incentivi economici e benefici finanziari.
• Dopo l’espulsione degli ebrei dalle regioni di Giudea e Samaria sotto occupazione giordana, la nascita di nuovi insediamenti è considerata un “ritorno” ai luoghi in cui il popolo ebraico si è formato come gruppo nazionale.
• Ci sono 122 insediamenti riconosciuti, costruiti con autorizzazioni del governo, che non sono state più emesse dagli Accordi di Oslo.
• Dei 122 insediamenti, 4 sono riconosciuti come città: Ariel, Ma’ale Adumim, Beitar Ilit e Modi’in Ilit.
• Il Consiglio Regionale di Giudea e Samaria (Yesha Council, dall’acronimo ebraico Yehudah ve-Shomron) è l’organizzazione che riunisce i consigli rappresentativi locali.
• Ci sono circa 105 outposts, agglomerati che si espandono oltre gli insediamenti e che sono stati fondati senza autorizzazione.

I coloni



• In Giudea e Samaria si contano 350.150 residenti israeliani.
• Le comunità sono perlopiù omogenee, e si dividono in religiosi sionisti, haredi (ortodossi e ultra-ortodossi) e laici/tradizionalisti.
• L’affiliazione politica delle comunità è variegata, con una maggioranza di votanti per il Likud e per Habayit Hayehudi, una parte di votanti per Yesh Atid (il partito di Yair Lapid) e per Avoda (il partito laburista) e una minoranza di votanti per Shas.
• Le comunità sono agricole, industriali e urbane.
• L’ideologia fondante è il sionismo, con una forte identificazione storico-religiosa, un consolidato impegno sociale e uno stile di vita solidaristico.

La disputa sulla legalità



Quale altra parola si può usare al posto di “insediamenti illegali”?
Dipende—Se ci vivono degli arabi chiamali città o villaggi.
Giusto—E se ci vivono degli ebrei? Si chiamano ostacoli alla pace.
Ah! Ho capito!


• L’argomentazione principale contro l’esistenza degli insediamenti consiste nel divieto di trasferire popolazione civile nelle zone occupate militarmente.
• Israele riconosce lo status di occupazione, riservandosi il diritto di amministrare i territori fino al raggiungimento di un accordo che garantisca confini sicuri.
• Secondo un’altra posizione, l’insediamento degli israeliani in Giudea e Samaria, territori il cui status non è ancora definito, non è da considerarsi un trasferimento di popolazione civile, quanto un ritorno alle comunità da cui gli ebrei sono stati cacciati in passato.
• Gli accordi esistenti con i palestinesi non includono né il divieto di espansione né lo smantellamento degli insediamenti, bensì prevedono che siano oggetto di negoziazioni.
• Nel maggio 2012, la Knesset boccia la proposta di legge avanzata dalla parlamentare Miri Regev (Likud) di estendere la sovranità territoriale a Giudea e Samaria.

Miri Regev

La pace e la difendibilità





• L’esistenza degli insediamenti non ha impedito la pace con l’Egitto, con la Giordania né ha impedito gli Accordi di Oslo.
• L’offerta di Ehud Barak ad Arafat a Camp David nel 2000 fu di smantellare la maggior parte degli insediamenti in cambio della pace. Il rifiuto di Arafat mise in dubbio la formula “terra in cambio di pace”.
• L’idea che la pace si possa raggiungere con concessioni si è dimostrata fallimentare dopo il ritiro dagli insediamenti di Gaza voluto da Ariel Sharon nel 2005, che non ha portato a un avanzamento nelle trattative, ma a un aumento degli attacchi terroristici.
• Lo status degli insediamenti è ancora dubbio e potrà definirsi solo nel contesto di una negoziazione di confini certi e sicuri, come affermato anche dalle risoluzioni dell’ONU, in particolare dalla 242 del 1967 che invitava al ritiro concordato dai territori occupati durante la Guerra dei Sei Giorni.





Intervista al prof. David Cassuto
Facoltà di Architettura, Università di Ariel in Samaria


Prof. David Cassuto

La controversia sul piano di costruzione nella zona E1 è basata sulla volontà per prima affermata da Itzhak Rabin di creare una continuità territoriale tra Ma'ale Adumim e Gerusalemme. Designata zona C dagli accordi di Oslo, l'area è sottoposta a forti pressioni diplomatiche per la costruzione di nuovi edifici, in particolare dopo il riconoscimento della Palestina come membro non-osservatore dell'ONU. In cosa consiste il piano E1 e su quali principi urbanistici e politici è basato?

L'ordine di pianificare la zona E1 fu emesso ancora dall’allora Premier Rabin, per unire Ma’ale Adumim a Geursalemme. Il piano regolatore è stato preparato diversi anni fa e prevede la costruzione di tre quartieri che constano di 4,500 abitazioni (edifici dai 4 agli 8 piani). Al momento sono stati pianificati due dei tre quartieri, che comprendono 3,500 abitazioni, scuole, asili, parchi, case di riposo, centri medici ecc. Il piano originario prevedeva anche zone alberghiere, che per ora non sono state incluse nella pianificazione. Personalmente ho delle riserve sui principi urbanistici che prevedono la costruzione di edifici molto alti, in linea con il fenomeno di verticalizzazione delle grandi città in tutto il mondo. Credo, invece, che si dovrebbe rispettare di più l’idea di villaggio, con architettura bassa, caratteristica dell’area.

Come definire Gerusalemme Est da un punto di vista sociale, urbano, e politico?

Non esiste un’area definita Gerusalemme Est. Gerusalemme è una città unita, che è stata unificata nel 1967, quando è stato abbattuto il muro che la divideva e che era stato eretto sotto occupazione giordana. Gerusalemme oggi si espande attorno alle mura della città vecchia. Ci sono tre mercati: uno è Mahane Yehuda, un altro è nel cuore del quartiere ultra-ortodosso e il terzo è nella parte nord della città. I tre mercati sono accessibili a tutti. Ci sono anche diversi centri commerciali, che sono frequentati da ebrei, cristiani e musulmani, che si incontrano ogni giorno senza paura né odio. Da un certo punto di vista la strada numero 1, che diventa “Yigael Yadin Road” e poi “Derekh Ma’ale Adumim”, attraversa la città dividendo una parte est da una ovest. Tuttavia, questa divisione non è sociale, perché la strada non divide la popolazione. I politici palestinesi e l’estrema sinistra israeliana tentano di creare questa divisione artificiale, ma senza successo. Certo è che arabi ed ebrei dovrebbero creare più occasioni d’incontro e cooperazione, e credo che accadrà una volta che la situazione sarà più calma. La tranquillità è la prima risposta per una soluzione delle controversie, ed è anche il primo passo per creare la condizione d’incontro e collaborazione.

Una delle accuse principali mosse a Israele è di impedire la libera circolazione dei palestinesi da nord a sud della Palestina. Il piano E1 prevede qualche soluzione a riguardo?

Certo. Il piano E1 prevede due arterie che colleghino Betlemme a Ramallah, senza checkpoint, permettendo la libera circolazione dei palestinesi. Queste due arterie passeranno attorno a villaggi e quartieri, perché, come nel resto del mondo, le autostrade non attraversano le città, anche se questo è considerato un modo di discriminare i palestinesi. Per ora, questo progetto rimane sulla carta, in quanto le negoziazioni sono in stallo.

Ariel, il maggiore degli "insediamenti" nella West Bank, è stato definito la "capitale della Samaria". Qual è la coesione urbana e sociale tra Ariel e le altre comunità della Samaria?

Ariel ha 40.000 abitanti, con un’importante università che conta 12,000 studenti. Ariel è anche il centro industriale della regione, con molte industrie e imprese anche nel settore della tecnologia e dell’innovazione. Nelle imprese lavorano sia israeliani sia palestinesi e garantiscono la stabilità e lo sviluppo degli impiegati palestinesi. Per questo motivo i tentativi di boicottaggio economico e culturale contro Israele causano più danno che beneficio ai palestinesi. Boicottare l’economia israeliana significa danneggiare i lavoratori e l’intera economia palestinese.

Ariel ospita anche un'università, aperta a ebrei e arabi, che ha affrontato un lungo processo per il riconoscimento del titolo ufficiale di "università" ed è ancora soggetta a boicottaggi culturali e accademici. L'istituzione di un centro universitario ad Ariel ha contribuito allo sviluppo delle comunità in Samaria?

Come ho detto, l’Università della Samaria conta 12,000 studenti di ogni origine e appartenenza culturale, etnica, religiosa e linguistica: nativi israeliani (sabra), russi, etiopi e arabi, che costituiscono il 10% degli studenti come nelle altre università israeliane. L’Università di Ariel è stata riconosciuta dal governo e dal Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione. Conta diverse facoltà: ingegneria, architettura, scienze naturali, pensiero ebraico, fisioterapia, medicina, scienze della comunicazione, sociologia e altri ancora. L’università ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo delle comunità di Samaria. Sia l’università sia il Centro Culturale, che è cresciuto negli ultimi anni, sono dei punti di riferimento fondamentali per la popolazione della regione. Quando non esisteva, i residenti della zona andavano a Gerusalemme per la vita culturale, ora vengono ad Ariel. Vorrei ricordare Ron Nachman, sindaco di Ariel per più di trent’anni. Scomparso di recente, Ron Nachman è stato fondamentale nello sviluppo di Ariel per la dedizione a una causa così importante per il suo popolo.

Tra i principali problemi delle comunità in Giudea e Samaria vi è la sicurezza, per cui si sono istituiti checkpoint, blocchi stradali e in alcune parti si è deciso di separare il traffico ebraico da quello arabo. Queste misure sono considerate da molti un sistema di apartheid. Qual è la realtà urbana delle regioni di Giudea e Samaria?

Ci sono misure di sicurezza, ma il sistema di protezione non può in alcun modo essere considerato una forma di apartheid. La realtà urbana è che checkpoint, posti di blocco e barriere possono esser rimossi nel giro di una giornata. Ciò accadrà quando i palestinesi fermeranno gli attacchi terroristici. Finché continueranno ad attaccare la popolazione ebraica, le misure di sicurezza saranno mantenute. Ma quando la minaccia terroristica cesserà, allora i blocchi e i muri saranno smantellati. Per ora la minaccia persiste, come anche Hamas e Abu Mazen hanno dichiarato. Inoltre, l’apartheid è un sistema di segregazione razziale, che non può esser paragonato alle misure di sicurezza adottate per proteggere una popolazione dagli atti criminali di chi ti vuole sterminare. Comunque la vita in Samaria e Giudea è molto più semplice di quanto pensi la gente. Molti arabi palestinesi sono impiegati dagli israeliani e vivono dei favori dell’economia fiorente proprio grazie alle colonie israeliane. Il problema è la politica dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e l’ideologia della sinistra radicale: vogliono boicottare le forme di cooperazione, con conseguenze negative sulle comunità israeliane e anche sulla vita dei palestinesi. La cooperazione tra israeliani e palestinesi in Giudea e Samaria è straordinaria e non è influenzata dall’ideologia politica. Al contrario, i politici vogliono impedire queste forme di cooperazione. La presenza delle colonie israeliane in Giudea e Samaria può esser vista come un’occasione d’incontro tra israeliani e arabi. Io sono architetto e lavoro anche nell’edilizia. Per lavoro incontro molti arabi, con cui parlo. Sono loro i primi a dire che temono la creazione di uno stato palestinese, che in realtà non vogliono. La pressione diplomatica esercitata da USA e UE è controproducente, ed è basata su due aspetti: la dipendenza dal petrolio arabo e l’antisemitismo. Il mondo ha bisogno degli arabi per il petrolio e l’energia. Come forza economica, gli Stati arabi sono in grado d influenzare le strategie e l’agenda politica della comunità internazionale. Forse quando il petrolio finirà, allora saremo in grado di risolvere questo problema.

Perché i residenti vogliono vivere a Samaria? Ci sono altre ragioni oltre a quella politica?

Ce ne sono varie. Principalmente si vuole vivere in Samaria e Giudea per le radici ebraiche, ma c’è più di questo. La qualità della vita in questa regione è molto alta, ed è radicata nella natura, nella tranquillità e nei valori sociali. È la stessa situazione di chi lascia la città per i kibbutzim, proprio per adottare stili di vita preclusi alla vita di città. A tale proposito vorrei aggiungere che c’è qualche incomprensione nel pubblico generale circa i residenti di Samaria e Giudea. Alcuni politici credono che i sussidi dati dal governo siano notevolmente maggiori rispetto a quelli destinati ad altre parti del Paese. Questo non è vero. I sussidi sono uguali ovunque in tutto il Paese, ma anche se il governo avesse deciso di costruire in altre parti, le persone avrebbero comunque scelto Samaria e Giudea come posto di residenza, proprio perché la qualità della vita che si può raggiungere qui. E ancora di più ora con il centro culturale, che ha migliorato di molto gli standard di vita nella regione.





Intervista a Yisrael Medad
Portavoce del Consiglio Regionale di Giudea e Samaria


Yisrael Medad

Quando si parla di Cisgiordania o West Bank, la presenza degli israeliani è definita come “occupazione illegale” o usurpazione delle terre sotto controllo israeliano in seguito alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Lei non condivide questa posizione: quali sono a suo avviso i diritti degli ebrei sulle terre di Giudea e Samaria?


Questa è la patria degli ebrei ed è illegalmente occupata dagli arabi. Noi ebrei abbiamo perso la nostra indipendenza nazionale in seguito alla rivolta di Bar Kochba, nel II secolo e.v., quando gli ebrei hanno perso l’ultima guerra contro i romani. Poi sono venuti i bizantini, quindi i persiani e infine gli arabi. Per brevi periodi questa terra è stata occupata dai Crociati e da altri ancora, finché sono tornati gli arabi. Quindi gli arabi sono gli occupanti illegali della terra ebraica. In duemila anni di esilio, la terra di Israele è stata un concetto di patria nazionale. La Bibbia è piena di riferimenti a luoghi che ancora oggi esistono e che costituiscono la nostra identità nazionale.
Ho frequentato una scuola ebraica religiosa negli Stati Uniti, dove studiavamo non solo la storia, ma anche le leggi sulla terra, compreso il diritto agrario biblico, anche se ovviamente non era applicato. Tuttavia, questo dimostra che il legame con la terra è sempre stato forte e reale. In più, gli ebrei sono sempre venuti a vivere qui in Terra d’Israele.
Sto raccogliendo del materiale per una pubblicazione cui lavoro da qualche tempo, e vedo come non sia mai passato anno senza che sia accaduto qualcosa che coinvolgesse un ebreo: comunità ebraiche espulse da Gerusalemme o Safed, nuove città fondate, nuove comunità ebraiche nate in questa regione, ecc. Quando la Lega delle Nazioni nel 1922-1923 ha riconosciuto il diritto degli ebrei a ricostituire la loro storica patria nazionale in questa regione, è stato solo una riconferma del nostro diritto a stare qui. Altresì, nel 1937, dopo i risultati della Commissione Peel, e nel 1947, dopo il piano di spartizione ONU, gli Arabi hanno sempre rifiutato l’esistenza di uno stato ebraico.
Sono convinto, e come me presumo lo siano anche gli altri residenti israeliani di Giudea e Samaria, che non sia possibile in alcun modo sostenere la tesi secondo cui questa sarebbe la patria degli arabi.

Come sono le relazioni tra residenti ebrei e arabi della West Bank?

Ho vissuto a Shilo, nel nord-ovest della Samaria, per 32 anni e in Israele dal 1970, quindi credo di poter dare una certa prospettiva temporale al periodo che gli arabi chiamano “occupazione”. Abbiamo vissuto due fasi.
La prima fase è compresa tra il 1967, quando ero qui in Israele come studente in un programma di scambio, e il 1987, l’anno in cui è iniziata la Prima Intifada. In questo periodo ci sono stati scontri, ma non c’era alcun problema nel visitare i villaggi arabi, dove di solito ci recavamo a fare compere. Da Shilo andavamo a piedi fino ai villaggi arabi qui attorno, avevamo le armi, ma non avevamo paura e non avvertivamo alcun sentore di pericolo imminente.
La seconda fase incomincia nel 1987. Dall’inizio della Prima Intifada la situazione è peggiorata sempre di più, finché è diventata invivibile. Prima lanciavano le pietre, poi hanno incominciato a sparare sulle persone, rendendo le strade insicure. Da lì abbiamo incominciato ad aumentare le misure di sicurezza: prima abbiamo messo reti sulle finestre, poi controfinestre, poi finestre rinforzate. Poi sono arrivati gli accordi di Oslo: e le regioni di Giudea e Samaria sono state divise in aree A, B e C, rispettivamente sotto amministrazione palestinese, congiunta e israeliana. Dopo questa divisione, come israeliano, non posso accedere a molte aree di Giudea e Samaria. Questa è la relazione con i vicini arabi nella regione.
A questo proposito vorrei raccontare di Zaki, un arabo palestinese del villaggio di Khiberet Samra, che lavorava a Shilo. È stato portato a Shchem (probabilmente più nota come Nablus) e torturato, perché lavorava con noi e tanto bastava per credere che fosse una spia e un traditore. Perché gli arabi dovrebbero lavorare con noi se possono strappargli le dita per questo?

C’erano ebrei che vivevano in Giudea e Samaria prima del 1947, quindi prima del 1967 e dell’occupazione delle terre sotto dominazione giordana?

Certo, c’erano ebrei e comunità ebraiche fondate durante il Mandato Britannico. Gli inglesi, in un certo senso, hanno permesso la pulizia etnica degli ebrei da parte degli arabi in Giudea, Samaria e a Gaza tra il 1920 e il 1947. Il Mandato doveva favorire la ricostituzione di una patria ebraica, ma ha permesso agli arabi, direttamente o indirettamente, di portare a termine la campagna di espulsione degli ebrei che vivevano a Hebron, Shchem (Nablus) e Gaza fino al 1929. Le comunità ebraiche fondate nell’area di Gush Etzion, i 4 kibbutzim (cooperative agricole) e i 2 moshavim (insediamenti di comunità) a nord di Gerusalemme (Ataroth e Neve Ya’akov) sono stati distrutti nella guerra 1947-1948. C’era anche un kibbutz, Bet ha-Arava, nel Mar Morto, che è stato smantellato a causa della guerra.
Non ci si deve poi dimenticare degli ebrei che vivevano nella città vecchia di Gerusalemme, che sono stati prima espulsi dal quartiere musulmano nel 1936-1939 e quindi cacciati dal quartiere ebraico nel 1947-1948.
Secondo i miei studi, nella Guerra 1947-1948, circa 17.000 ebrei sono stati cacciati dalla regione che oggi il mondo chiama West Bank. A questi si devono aggiungere dai 5.000 ai 7.000 ebrei che vivevano in varie aree negli anni precedenti, compresi Gaza, Hebron, Shchem (Nablus) e qualche altro luogo. Per esser cauti, si può dire che almeno 20.000 ebrei sono stati espulsi dalle loro proprietà negli anni ’30 e ’40.

Quindi erano rifugiati, rifugiati ebrei…

Sì, erano rifugiati. Questo è un argomento su cui ho incominciato a lavorare dieci anni fa, e ho avuto conferma dei dati confrontandoli con i documenti dell’UNRWA (United Nations Relief and Work Agency), che fino al 1952 aveva sotto protezione circa 3.000 ebrei. Infatti, l’UNRWA, secondo la risoluzione inziale, è stata fondata per i “rifugiati di Palestina” non per i “rifugiati palestinesi”! Oggi palestinese significa solo arabo, mentre la decisione iniziale, parlando di “rifugiati palestinesi”, includeva sia ebrei sia arabi. Nel 1952, Israele ha gestito la situazione autonomamente, comunicando all’UNRWA che si sarebbe preso cura dei propri rifugiati e terminando di conseguenza l’assistenza internazionale.

Oltre al Sionismo, quali sono i principi politici e sociali che formano la vita delle comunità di Giudea e Samaria?

È fondamentale rilevare che la nostra presenza qui non è per nulla una situazione di vantaggio personale o economico. Ci accusano di voler vivere qui per i sussidi e gli incentivi economici del governo. I benefici economici sono ormai terminati. Nei primi anni, avevamo tassi d’interesse agevolati e altri incentivi di questo tipo. Rabin li ha ridotti e Barak, nei primi anni ’90 ha cambiato definitivamente politica. Pertanto vivere qui in Giudea e Samaria significa in realtà non solo dover spendere di più in trasporti e non avere i migliori negozi, ma anche soffrire della precaria situazione di sicurezza. Ciononostante continuano a dire che vivendo qui ne traiamo un guadagno, ma non è per niente così. Le case qui sono certo meno care che a Gerusalemme, ma anche a Tel Aviv costano meno che a Gerusalemme.
Molte delle piccole e medie comunità hanno una precisa ideologia e sono religiose, il che implica un certo tipo di stile di vita. Per esempio, quando nasce un bambino in una famiglia, il resto della comunità aiuta la madre che non ha tempo di cucinare né lavare perché deve accudire il neonato e il padre che continua a lavorare. Lo stesso vale per altre occasioni. Chi vive in queste comunità ha una devozione per la vita sociale, per gli “atti di carità”—che in ebraico si definiscono con la parola hessed. A Shilo ci sono circa 30 gamahim, che in ebraico sta per gmilat hassadim, e può esser tradotto come “atti di prodigalità”. Per esempio, se si vuole organizzare un matrimonio, si va dal gamah che fornisce tutto il necessario per l’evento. Tutto ciò è espressione non solo del nostro credo religioso, ma soprattutto è espressione della corrente religiosa sionista, che sostanzialmente si basa sul principio di portare vita alla terra. Quando stiamo su questa terra, non vediamo solo una splendida natura e dei bei paesaggi, ma sentiamo un legame. È nostra convinzione che noi abbiamo un patto con D-o, così come ad Abramo è stato comandato “va’ nella terra di Moria”.
Il legame che sentiamo non è solo dovuto al fatto che qui siamo sicuri fisicamente, ma è anche dovuto a ciò che siamo. Essere ebrei e vivere in Terra di Israele e far crescere la terra di Israele, farla fiorire, significa anche, per esempio, creare buone istituzioni educative, scuole ecc. Solo a Shilo ci sono 1.000 bambini nella scuola elementare. Inoltre, le comunità di Giudea e Samaria hanno tassi di criminalità molto bassi rispetto alle altre città del Paese.
Gli episodi di violenza che accadono sono perlopiù legati alle controversie sulle proprietà della terra con gli agglomerati che si sono espansi fuori dagli insediamenti radicati sul territorio. Per lo sviluppo di questi agglomerati non è stato espulso nessun arabo dalle sue proprietà. In alcuni casi abbiamo torto, ma nella maggior parte dei casi abbiamo ragione.

Uno degli argomenti usati contro le comunità di Giudea e Samaria è il costo degli insediamenti al governo. Qual è la sua opinione a riguardo?

L’idea di ritirarsi dalla Giudea e dalla Samaria non arrecherà alcun beneficio a Israele. Per far trasferire 350.000 ebrei dalla Giudea e dalla Samaria all’altra parte della Linea Verde, lo Stato di Israele dovrà spendere molti soldi per ricostruire abitazioni, scuole, aumentare i servizi sanitari nelle nuove aree di residenza. Quindi il ritiro non farà risparmiare nulla al governo.

Le relazioni tra ebrei e arabi in Giudea e Samaria sono caratterizzate da episodi di violenza. Israele ha risposto con una serie di misure di sicurezza, che includono blocchi stradali e posti di blocco. Queste misure sono considerate come una forma di apartheid. È così?

Non è per nulla così. L’apartheid semplicemente non esiste. Gli arabi possono percorrere le nostre strade; mentre siamo noi a non poter percorrere le loro. Se si viaggia nelle aree C, si vede che più del 50% delle auto hanno la targa palestinese.

Com’è la situazione con riferimento al radicalismo delle comunità religiose di Giudea e Samaria, note per le azioni “price tag” (atti di vandalismo contro proprietà di arabi e attivisti israeliani di sinistra)? Sono una minoranza? E perché attirano così tanto l’attenzione dei media?

C’è una componente di ossessione mediatica perché ci sono importanti mezzi di comunicazione, come il quotidiano israeliano “Haaretz” in Israele, che sono, per così dire, la Bibbia dei media di sinistra.
Avete per caso sentito parlare di azioni “price tag” nell’ultimo mese? No. Ce ne sono state? Sì. Quindi il punto non è l’azione “price tag” in sé, ma la percezione di questi episodi di violenza e delle persone che li compiono.
Posso citare cinque comunità che definirei problematiche. Potrei fare i nomi di cinque persone che ritengo problematiche. In tutto, stiamo parlando di 300, 500 persone, forse meno ancora. La maggior parte delle volte, inoltre, questi episodi di violenza sono attacchi di risposta.
Non nascondo che ci siano problemi, perché c’è una parte delle comunità che spinge in favore di una risposta violenta alla situazione che si è creata; il che è inutile, immorale e illegale. Il Consiglio Regionale di Giudea e Samaria ha da sempre denunciato questi episodi di violenza e ha chiesto alla polizia di intervenire. Le forze di sicurezza non sono riuscite a prendere i responsabili. Negli ultimi due anni, delle più di dieci persone che sono state arrestate, solo cinque sono finite in tribunale. Un anno e mezzo fa alcuni rabbini sono stati coinvolti e sono stati arrestati per poi esser rilasciati a causa d’insufficienza di prove.
Tuttavia per i giornali rimangono rabbini che incitano alla violenza, senza prove, senza capi d’accusa e senza processo. Non dico che non ci sia niente di tutto questo, ma almeno esigo un minimo di rispetto, se non per noi, almeno per la legge e le garanzie costituzionali. Sembra che questi principi democratici di base non si applichino a noi, perché siamo “radicali”, “fanatici religiosi”, perché “arrechiamo danno allo Stato di Israele”.
L’errata percezione delle comunità di Giudea e Samaria è evidente nel modo in cui i media ci descrivono. Circa otto mesi fa il Consiglio Regionale di Giudea e Samaria ha pubblicato i risultati di una ricerca demografica, da cui appare che un terzo degli abitanti è religioso sionista, un terzo haredi (tradotto come ortodosso o ultra-ortodosso), e un terzo laico/tradizionalista. Perché i laici devono essere condannati insieme ai religiosi per gli atti di qualche ragazzino? Allo stesso modo, se c’è uno stupro a Tel Aviv, dovrei forse dire che a Tel Aviv sono tutti stupratori?

Gerusalemme Est è inclusa nella denominazione “territori occupati”. Qual è la realtà urbana e sociale di Gerusalemme Est?

Gerusalemme Est non ricade nella competenza territoriale del Consiglio di Giudea e Samaria, bensì è sotto responsabilità della Municipalità di Gerusalemme. È il sindaco di Gerusalemme a dover garantire appropriate infrastrutture, sistema fognario, elettricità, scuole. Questo migliorerebbe di molto la situazione.
C’è anche da dire, però, che decine di migliaia di arabi residenti di Gerusalemme Est hanno carta di identità israeliana e decidono di votare pur avendone diritto. Vogliono assicurarsi la residenza, ma non vogliono esser identificati con Israele.
In molti sostengono che la città sia ancora divisa e che gli ebrei non vadano a visitare i quartieri arabi, ma quando lo fanno, sono presi di mira. Insomma è il caso di dire “come fai, sbagli”. Ci sono poi migliaia di arabi che vivono a Gerusalemme Ovest, il che dimostra che la città è unita, in realtà.
Molto dev’esser ancora fatto per migliorare le situazioni di svantaggio, con interventi alle infrastrutture, al sistema scolastico e alla rete sociale. Ribadisco che è un problema della Municipalità di Gerusalemme. Se nemmeno Teddy Kollek ci ha pensato, che è stato il sindaco di Gerusalemme con più lunga carica, più di 20 anni, e che era un laico pragmatico, non è di certo colpa dei cosiddetti “fanatici religiosi di destra”.





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